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 2005  febbraio 05 Sabato calendario

SGRENA

SGRENA Giuliana Masera (Verbania) 20 dicembre 1948. Giornalista. Del ”manifesto”. Rapita in Iraq il 4 febbraio 2005, fu liberata il 4 marzo con l’operazione costata la vita all’agente del Sisimi Nicola Calipari (colpito dal ”fuoco amico” dei marines). «[…] Da quando mi hanno presa, mi ero fatta un mio calendario. Le novità, da loro, arrivavano sempre al sabato, il giorno in cui mi hanno fatto girare i video, e mi avevano fatto scrivere la lettera come prova in vita. Però avevo notato che i due ”addetti” alla mia sorveglianza, gli unici che ho sempre visto a volto scoperto, scherzavano tra loro. E la cosa mi aveva colpita. Dopo pranzo, intorno alle 15 chiedo a uno il perché di questa allegria: ” perché resto o perché parto?” Da giorni mi dicevano che me ne andavo. Lui svicola, l’altro mi fa capire di mettermi il cuore in pace, non è per oggi […] A pomeriggio inoltrato rientrano nuovamente nella mia stanza. Noto che per la prima volta sono vestiti all’occidentale, camicia e pantaloni di flanella. Sono tesi: ”Complimenti, te ne vai a Roma, vestiti in fretta” […] Uno di loro, mentre mi fa mettere occhiali scuri imbottiti di garza, mi fa: ”Sei sicura di te, non sei nervosa? Sarà una cosa difficile. Se qualcosa va storto ci rimettiamo tutti. Se ci fermano, non devi sembrare americana”. Chiedo perché non mi hanno dato un vestito da donna araba, come ricordavo era stato fatto per le due Simone. Loro praticamente non mi rispondono, dicono solo ”no’ […] mi ridanno la mia borsa. C’è quasi tutto. Mancano 200 dei mille dollari che avevo, qualche block notes, ma ci sono i documenti, compreso il passaporto. Ci sono anche i tre accrediti per le elezioni, uno dei quali era stato rilasciato dagli americani. Si tengono soltanto il mio telefono satellitare la macchina fotografica digitale. Quando usciamo, ho la percezione che sia già buio […] Sono certa che ci siano i miei due carcerieri abituali, e un’altra persona, al volante. a lui che squilla in continuazione il cellulare. Lo sento parlare, concitato. Sono convinta che si rivolgesse a un’auto che ci precedeva. […] Sento lo ”splash” di una pozzanghera, e l’auto si ferma. Loro mi dicono di non muovermi, e se ne vanno. Sento il rumore di auto che passano, intuisco i loro fari, capisco che siamo su una via trafficata. Sopra di me volteggia un elicottero. Ricordo di aver pensato a Mogadiscio, quando stavo intervistando uno dei signori della guerra somali, ed avevamo sopra di noi un elicottero Usa. ”Speriamo che non ci prendano neanche stavolta”, penso. Ci sono macchine che si fermano vicino alla mia, e poi ripartono. L’attesa non dura più di mezz’ora […] Si apre la porta sul mio lato, ma è uno dei miei carcerieri. ”Dieci minuti”, mi dice. Se ne va. Mi sono messa a contare, da uno a 60, e poi ricominciavo. Dopo una decina di volte, la porta del lato opposto al mio si apre. Era Nicola Calipari […] ”Non aver paura, sei salva”. Gira intorno alla macchina, apre la porta e mi tira fuori. ”Abbandonati a me, seguimi”. Mi guida per pochi passi. ”Mi siedo vicino a te”, mi dice. Partiamo. Poco dopo mi dice di togliermi le bende dagli occhi. Davanti c’è solo un’altra persona, al volante […] La prima telefonata la fa l’autista. Chiama un numero, e ho la sensazione che stia parlando con qualcuno a Bagdad. ”Stiamo arrivando, siamo in tre”, lo ripete più volte […] Ad un certo punto Calipari si arrabbia perché uno dei telefoni non funziona, ma non ricordo quale fosse. Fanno diverse telefonate, tutte in italiano […] Ad un certo punto l’autista dice a Nicola: ”Sono 700 metri, siamo quasi in aeroporto, ce l’abbiamo fatta”. Ricordo di aver pensato che allora la nostra sicurezza era relativa. Perché dire ”ce l’abbiamo fatta?” […] Poco dopo quella frase, l’autista frena, perché c’è una curva a gomito sulla destra. Decelera notevolmente, e non stavamo certo correndo. Mentre sta finendo le curva, gli spari. Da destra e da dietro. Raffiche e colpi singoli. Non è vero che hanno sparato al motore, da davanti […] I vetri della macchina esplodono all’unisono. Sono sicura anche di questo, non c’è stata nessuna scarica in aria. Ho sentito gli spari e i finestrini sono andati in mille pezzi. Nessun fascio di luce, nessuna piccola luce. Era buio, e io mi stavo guardando intorno […] ”Ci stanno attaccando, ci stanno attaccando” dice l’autista che sta armeggiando con il cellulare. E intanto ferma l’auto. Calipari non lo sento più. Ho come la sensazione che si metta addosso a me. Sono certa che mi ha salvato la vita. Gli parlo. Sento solo un rantolo. Ho capito che stava morendo […] Un blindato fermo, che spunta fuori dalla strada, sulla destra. E da lì, dall’alto che solo a quel momento veniamo investiti da un fascio di luce. Un soldato apre la porta dal lato destro. Quando ci vede, ho la netta sensazione che rimanga male. Impreca. Mi sembra che abbia detto ”oh, shit”. Anche quando arrivano gli altri, 7 8 da dietro il blindato, ho la sensazione di un loro scoramento […] Io i proiettili li ho visti. Non so se fossero 3-400, ma l’abitacolo era pieno di proiettili. E ricordo di aver pensato come facevo ad essere ancora viva, con tutti quei proiettili intorno a me […] Mi hanno chiesto subito le generalità, ma non ho notato reazioni particolari. Solo molto dopo, mi si è avvicinato un americano, dietro alla barella su cui sono stesa, e mi ha chiesto ”Tu sei la giornalista italiana che è stata sequestrata, vero? […]» (Marco Imarisio, ”Corriere della Sera” 11/3/2005). «[…] il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. ”Chiedi aiuto a tuo marito”, dicevano. E l’ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è cambiata. […] Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: ”Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!”. E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. ”Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura”. E io ribattevo, quasi a provocarli: ” facile rapire una donna debole come me, perché non provate con i militari americani?”. Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore ”politico” non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra. stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l’Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei ”provocatori”. Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l’altro, un aspetto da soldato: ”Dimmi la verità, mi volete uccidere”. Eppure, molte volte, c’erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. ”Vieni a vedere un film in tv”, mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva. I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma […] al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni mattina si alzava alle 5 per pregare, mi ha fatto le sue ”congratulazioni” incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo ”se ti comporti bene parti subito”. Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta ”Liberate Giuliana” sulla sua maglietta. Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell’alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. ”Noi non vogliamo più nessuno”, mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro ”leader” non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: ”Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?”. L’effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. […]» (’il manifesto” 7/3/2005). «[...] Piccola e minuta [...] ama i suoi gatti e soffre terribilmente il freddo, sempre pronta a saltare su un aereo, su un treno o anche su più scomodi mezzi di trasporto per arrivare di corsa nei luoghi delle sopraffazioni e delle ingiustizie, aveva immaginato che il suo rapimento, di cui parlava qualche volta forse per scaramanzia, sarebbe diventato un fatto mediatico di risonanza mondiale. Che avrebbe messo in moto non solo il suo governo ma l’intera Unione europea, per non parlare del papa, degli intellettuali e dei calciatori e dei campioni di sci, fino allo stesso Bush in visita in Europa. Forse avrebbe faticato anche a immaginare quelle 500 mila persone per le strade di Roma, quasi una rinascita del movimento pacifista in suo nome, quell’enorme corteo che non c’era stato neanche per le due Simone, pure al centro della commozione nazionale. [...] una giornalista abbastanza speciale nel panorama italiano [...] piemontese di Masera, paesino di 1.500 anime della Val D’Ossola [...] suo padre Franco, un ferroviere comunista e cocciuto, che l’ha messa al mondo quando era poco più che un ragazzo [...], sempre pronto a darla vinta a quella bambinetta indipendente e molto brava a scuola, al contrario del maschio nato più tardi, che poi aveva finito per fare il ferroviere come il papà. Così, quando Giuliana si era rifiutata di continuare a studiare in un istituto di suore a Novara, perché, ricorda Franco Sgrena, ”diceva che in mezzo a quell’ipocrisia non poteva vivere”, l’aveva mandata a fare il liceo linguistico a Stresa, e poi, con parecchio sacrificio, a Milano in una facoltà di prestigio come Economia alla Bocconi. Era andata avanti benissimo due anni, poi era successo qualcosa. ”Una specie di blocco, un esaurimento, forse. Anche da lì aveva voluto andarsene” [...] Probabilmente nella Milano degli anni ’70, del Movimento studentesco e del dopo ’68, Giuliana non era più riuscita ad accettare l’ordine rigoroso di quella università d’élite. E infatti è alla facoltà di Lingue della Statale che si trasferisce, fra i dadze bao di Mario Capanna [...] simpatizza per il Movimento studentesco e si applica a studiare le lingue che poi le saranno così utili nella carriera, l’inglese, il francese e soprattutto lo spagnolo, che diventa quasi la sua seconda lingua. Ed è la Spagna il primo paese straniero a cui si appassiona, anche a causa di un esule dal franchismo, il suo grande amore di quel periodo, che poi ritroverà dopo la fine della dittatura, in vari viaggi in Spagna. Intanto anche Giuliana è sempre più risucchiata dalla politica. ”Era diventata una gruppettara e con me che ero un comunista di vecchio stampo c’erano parecchi scontri. C’era anche il dispiacere per la laurea che non aveva voluto prendere, anche se le mancava solo un esame e la tesi”, ricorda Franco Sgrena. Era il periodo in cui vari gruppi extraparlamentari si trasformavano in partitini e tentavano l’avventura elettorale. Fra gli altri anche l’Mls, nato dal Movimento della Statale, che aveva scelto fra le persone da trasferire a Roma la ragazza che si occupava di una loro rivista, Giuliana appunto. La movimentata confluenza dell’Mls nel Pdup diretto da Lucio Magri [...] Quando, a metà degli anni ’80, il Pdup decide di confluire nel partito comunista anche loro devono fare una scelta. [...] Giuliana, ben decisa a diventare una giornalista vera, un’inviata di esteri anche se la strada è difficilissima. [...] Arrivata al ’manifesto’ dopo un duro periodo come free lance, comincia a mettersi in luce con le sue cronache dall’Algeria sconvolta dalla guerra civile, dove dimostra un coraggio non da poco, avventurandosi nelle periferie e nelle campagne assediate dagli integristi, raccontando la vita della gente comune come quasi nessuno si preoccupava di fare. Quella da allora diventa la cifra più riconoscibile del suo modo di scrivere, nei vari paesi a cui via via si appassiona: il Mozambico e l’Egitto, e poi la Somalia e l’Eritrea al momento dell’indipendenza. Per rendere più puntuali le sue cronache precise e veloci comincia anche a fotografare i personaggi delle sue interviste, quasi sempre le vittime delle guerre che si rincorrono nei vari continenti, e di cui i civili sono i primi bersagli, come non si stanca di denunciare. La sua è una crescita professionale che va avanti in modo lento ma sicuro, in una prima fase sotto le ali dei nomi storici del suo giornale, da Rossana Rossanda a Valentino Parlato alla Castellina. Qualche attrito c’è invece con la generazione più giovane, con i suoi coetanei spesso più ideologizzati e pronti a sposare cause politiche piuttosto che a scavare nelle contraddizioni della cronaca. Succede in particolare quando Giuliana comincia ad occuparsi di Medio Oriente, passando lunghi periodi in Afghanistan, su cui ha scritto uno dei suoi libri migliori, Alla scuola dei Talebani. Al giornale qualcuno la giudicava dura e scortese (ma dopo il rapimento la solidarietà è totale). Le molte amiche ne ricordano invece la gentilezza e il riserbo. ”In realtà Giuliana è una cronista con il dono dell’obiettività che non si stanca mai di raccontare ed è capace di mantenere anche nelle storie più drammatiche una posizione ferma e civile”, dice Valentino Parlato. Nella gran carovana degli inviati sui vari fronti parecchi cominciano ad accorgersi della ”ragazza del ’manifesto”, che non manca mai nei momenti e nelle situazioni più calde: sulla strada fra Jalalabad e Kabul il giorno prima dell’agguato a Maria Grazia Cutuli, a Mogadiscio dove si precipita con un viaggio avventuroso dal Mozambico appena Pier le racconta per telefono l’uccisione della sua amica Ilaria Alpi, a fianco delle due Simone dopo il sequestro. Dappertutto cerca di capire anche a costo di trovare verità scomode e riesce a creare legami preziosi con gli intellettuali e con la gente comune, che poi, nei viaggi successivi, diventeranno preziose fonti di informazione. Non ha i supporti e i mezzi economici degli altri inviati ma non se ne preoccupa, pronta a dividere tranquillamente la stanza con qualche collega alle prime armi, come a Baghdad nei giorni del rapimento, anche se ormai è diventata una giornalista autorevole. Con il suo lavoro dall’Iraq, dove negli ultimi anni è andata sempre più spesso, Giuliana è stata notata dalla stampa internazionale. In Italia il circo mediatico ha continuato ad ignorarla, ma in Germania è stata chiamata a collaborare a uno dei settimanali più prestigiosi, ”Die Zeit” [...] E di cose da vedere nell’Iraq della guerra civile, della distruzione di Falluja e delle elezioni per una cronista come Giuliana ce n’erano moltissime. [...]» (Chiara Valentini, ”L’Espresso” 3/3/2005). «[...] i suoi numerosi viaggi in Iraq sono sempre stati scanditi da servizi unici, con un taglio personale costruito sulla profonda conoscenza della materia (ha studiato arabo all’università di Tunisi) e sul tratto costante del suo lavoro: la curiosità e il rispetto per la cultura altra, con uno spirito critico mai sopito. E così aveva scovato la storia del radicalissimo militante di al Sadr che si faceva pagare cifre notevoli dai marines americani per dipingerli con le loro famiglie, copiate dalle foto ripiegate nei portafogli, in oleografici megaritratti in stile iracheno. Lo raccontava ridendo, quel contraddittorio mercato tra nemici così umano, per sottolineare quanto assurde siano sempre le contrapposizioni. E ancora il circolo degli artisti e intellettuali di Bagdad che lei andava a riscovare, caparbia, ad ogni visita in città, come a mantenere un filo rosso con la parte pensante del Paese, quella che non si arrende al fondamentalismo e alle divisioni. La parte pensante che Sgrena ha cercato ovunque, tra le donne che si battono contro gli integralisti in Algeria rischiando la vita, e tra quelle del movimento ”Rawa” di Kabul, clandestine sotto i Taleban [...] Perché l’oppressione dell’universo femminile ad opera degli integralisti è ormai il filo conduttore della ormai trentennale ricerca giornalistico-culturale di Sgrena. [...] crescita politica nel movimento studentesco, con Mls, negli anni 70 a Milano, l’ingresso nel Pdup negli anni 80 e l’attività giornalistica con la rivista storica del pacifismo italiano Pace e Guerra. Dopo un periodo di collaborazione alla Rai, con OraD, l’approdo al ”quotidiano comunista” di via Tomacelli, e con il lavoro giornalistico la prosecuzione di un’avventura intellettuale che la porta a esplorare soprattutto il sud del mondo, prima il Sud America, poi il Medio Oriente e l’Africa: Algeria, Mozambico, Palestina, Egitto, Somalia, Iran, Afghanistan. Persino le vacanze, con il compagno Pier Scolari, sono spesso tour di conoscenza in luoghi affascinanti ma turisticamente improbabili: Afghanistan, Uzbekistan, Libia. Passione, curiosità, un corpo minuto e un carattere d’acciaio, piemontese sempre infreddolita, e così innamorata dei climi caldi, del Sud. [...] Osservatrice ma anche donna di parte, certo, con una conoscenza così profonda dei luoghi e dei popoli da rendere la sua opinione autorevole. [...]» (Raffaella Menichini, ”la Repubblica” 5/2/2005). «[...] Raccontando dei paesi in guerra dove è stata ha sempre cercato infatti di dar voce a chi non aveva né armi né potere, alla gente che sempre diventa vittima dei ”danni collaterali” della guerra: delle bombe come della fame, della sete, di una condizione di esistenza disperante. Proprio per questo, alle donne soprattutto. Che è sempre andata a trovare, nei quartieri più lontani, quale che fosse lo stato del conflitto. Quando l’Irak fu aggredito, nel marzo del 2003, e alcuni di noi dettero vita per una decina di giorni a una trasmissione televisiva quasi corsara - No War tv - era a Giuliana che telefonavamo per avere una testimonianza in diretta: e lei rispondeva, mentre già piovevano i missili, calma come sempre, e ci descriveva la gente di Bagdad, con la quale stava. Ad occuparsi del mondo ha cominciato presto, Giuliana: nel Movimento Studentesco di Milano, il più forte d’Italia, che poi divenne Movimento dei lavoratori per il solcialismo e quindi confluì nel Pdup, nel ”68. Per ”Compagne e compagni - La Sinistra”, il giornaletto dell’organizzazione, ha scritto in particolare della Spagna post franchista, quindi di cose estere più generali, fino ad entrare a far parte della redazione di una pubblicazione più importante: il mensile e poi settimanale Pace e guerra, diretto da Claudio Napoleoni, Stefano Rodotà, e dalla sottoscritta (poi anche da Michelangelo Notarianni), un tentativo di aggregare sinistra socialista e comunista, ortodossa e non. Per Pace e Guerra, dove animava la sezione internazionale assieme ad un altro ex militante del Movimento studentesco diventato piuttosto famoso, Paolo Gentiloni, Giuliana ha seguito ogni passo del movimento pacifista italiano rinato in quegli anni nella lotta contro l’installazione dei missili Pershing e Cruise, così come degli SS20 sovietici per ”Un’Europa senza missili dal Portogallo agli Urali”. Era lo slogan di allora. Anche in quella fase, quando era alle sue prime armi di professionista, Giuliana non ha mai separato la pratica del mestiere da quella politica: a Comiso non si limitava a scrivere, sedeva con tutti gli altri dinanzi alla base del Magliocco, nei cordoni umani attaccati dalla polizia coi manganelli che cercavano di aprire il varco alle nuove armi. Poi al Manifesto, la maturità professionale, l’occasione di conoscere molto mondo, sempre quello sofferente delle guerre e delle opressioni: il Corno d’Africa, il Maghreb, il Medio Oriente, l’Afghanistan, dove va e torna molte volte. In Irak la sua presenza è ininterrotta, c’era stata già in occasione di tempesta nel deserto, c’è torntata poi con ”Un ponte per ...”, la Ong per cui lavorano le due Simone. Quando esplode lo scandalo di Abu Ghraib Giuliana racconta il calvario di Mithal, una donna detenuta per 80 giorni nel carcere delle torture. ”L’intervista di Mithal termina con queste parole: `Gli Stati uniti hanno occupato il nostro paese, abbiamo diritto di difenderci. La resistenza è autodifesa’”. La Resistenza: Giuliana è la prima a parlarne, ma mai attraverso le dichiarazioni di gruppi organizzati, sempre attraverso la voce della gente, delle donne. E racconta di Falluja, di come e perché sia diventata un simbolo di un’opposizione capillare, istintiva, poco organizzata. ”Alcuni sostengono che questa resistenza sia opera degli ex sostenitori di Saddam - scrive Giuliana - e che Falluja sia una roccaforte dell’ex dittatore. I nostri interlocutori negano”. Sono proprio questi reportages che descrivono la società civile irakena, che parlano di quello che solo pochi giornalisti vedono e dicono, che hanno reso unici i servizi giornalistici di Giuliana. Tanto che Die Zeit, il prestigioso settimanale tedesco nella cui direzione siede Helmut Schmit, le aveva chiesto di collaborare. [...]» (Luciana Castellina, ”il manifesto” 5/2/2005). «[...] una giornalista di sinistra, pacifista, una che ha una visione del mondo precisa, che non amava le superpotenze quando erano due, tantomeno oggi che è una sola e questa fa il bello e soprattutto il cattivo tempo nel mondo. Se questo significa essere antiamericani, allora Giuliana lo è. La guerra le fa orrore, la guerra con la G maiuscola come quella contro l’Iraq, ma anche quelle che non cominciano e non finiscono mai. Anni fa, quando uno dei punti più caldi del mondo era l’Algeria, Giuliana spese tutta se stessa nella battaglia (politica e culturale, giornalistica insomma) contro i terroristi che sgozzavano i civili, donne, bambini, vecchi, chi capitava. In quel Paese, attraverso i rapporti che ha costruito con i protagonisti di quella battaglia di liberazione, con le donne algerine innanzitutto, si è formata la donna che in questo momento è prigioniera di persone che con quei terroristi algerini hanno qualche cosa in comune. Ormai andava e veniva da Baghdad come un pendolare. [...] durante il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, ha voluto tornarci, vincendo le preoccupazioni di molti del manifesto, preoccupazioni che erano naturalmente diventate fortissime. andata, ha scritto, ha intervistato, ha raccontato. Erano le settimane in cui scoppiò la polemica nella sinistra a proposito del terrorismo iracheno [...]» (Riccardo Barenghi, ”La Stampa” 5/2/2005).