Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  febbraio 03 Giovedì calendario

NESPOLO Ugo

NESPOLO Ugo Mosso Santa Maria (Biella) 29 agosto 1941. Artista. «[...] artista inventivo, bizzarro, attento alle lezioni di maestri quali Picasso, Matisse, l’amico Enrico Baj e tutta la Pop Art [...] Dietro l’apparente allegria colorata si celano i più diversi tipi di ossessioni e mostri, che affiorano da un sottosuolo psichico turbato, con varie rivisitazioni dalle avanguardie russe al Futurismo, senza dimenticare il Cubismo dai tempi aurorali. [...]» (“La Stampa” 2/2/2005) • «Fuori, sulle pareti esterne dell’edificio dipinto di azzurro carico, tendente all’indaco, è stata restaurata anche la scritta dorata di quella che fu per molti anni la fabbrica Gallino. “Omnia vincit labor”, proclamava a clienti e operai l’industria che dal primo Novecento produceva un po’ di tutto, dai pezzi per aerei alle bocce. “Lavorar lavorar lavorar preferisco il colore del mar”, risponde dall’interno una piccola scultura di bronzo dorato, un gioco di lettere sovrapposte firmato Ugo Nespolo. Ma parlare di interno e di esterno, nello studio torinese dell’artista, richiede qualche precisazione. La parola “studio” evoca abbaini e vetrate sui tetti, o stanzoni al piano terra, magazzini, fienili e locali magari ampi ma sempre circoscritti, e qui suona un poco inadeguata. L’alternativa inglese oggi molto di moda, “factory”, non piace particolarmente al padrone di casa, che pure ha un alto concetto di Andy Warhol. In Italia trionfano proprio di questi tempi le “factories”, centri di creazione collettiva, “fabbriche” di pubblicità, d’arte decorativa, di idee, di mercato. Questa però non è una fabbrica, anche se ne ha le dimensioni, l’involucro esterno, la struttura. “Preferisco pensarla come una bottega rinascimentale, viva e aggiornata”, spiega Ugo Nespolo; ha creato in più di vent’anni l’intero labirinto, ed ora lo attraversa e lo accarezza, lo usa e magari anche ci gioca come un Teseo felice che ha deciso di risparmiare il suo minotauro. Tre piani più le terrazze, quattromila metri quadri, una fuga di stanze, sale, corridoi, uffici, laboratori, archivi, magazzini, biblioteche, opere d’arte. Ci sono pure sauna e palestra. È un posto dove vivere e lavorare, ma anche viaggiare, esplorare, accogliere. Al terzo piano è in fase di ultimazione una sala conferenze da 150 posti, con annesso un museo del cinema d’artista e d’avanguardia. Uno apre le finestre e vede, sul tetto della casa accanto, un curioso sistema di reti che delimita due campi di bocce: li fece costruire Gallino sull’edificio dove allora abitava, per giocarci con gli amici e in particolare con il maresciallo Badoglio. Da qualche parte una lapide ricorda doverosamente il tutto, ma quel Lingotto bocciofilo in miniatura non fa parte della “bottega” Nespolo, è sul perimetro dell’isolato costruito dopo l’inizio del secolo, che ha imbozzolato l’edificio industriale appena oltre la ferrovia, nell’area ora trafficatissima del nuovo Palazzo di Giustizia. Non fa parte dell’immensa bottega eppure la colora con i fantasmi del luogo e del tempo, paesaggio ideale per un artista che ha sempre guardato con molta attenzione al futurismo, e in particolare a Fortunato Depero, cui ha dedicato qui una simbolica ma utilizzabilissima stanza, con l’archivio del futurista trentino e persino la sua scrivania originale. Aviazione e bocce, antichi borghesi e “colore del mar”, computer e pennelli, New York dietro l’angolo e Marinetti in volo. Il posto ideale per che cosa? Qual è il senso di uno “studio” di queste dimensioni, con tutte le tecnologie possibili, atelier e museo, luna park e macchina delle meraviglie, centrale operativa mondializzata? Nespolo, che aveva cominciato guardando all’“arte povera” e alla pop art, ma ha sempre amato i pennelli, la carta, il legno, la preparazione dei colori, forse non aveva strettamente bisogno di popolare con una manciata di collaboratori fidatissimi e un paio di assistenti una struttura di queste dimensioni. La sua tecnica più nota, il “traforo”, si basa in fondo su lavorazioni molto artigianali. “All’inizio, quando ancora studiavo in Accademia, mi venne in mente di fare dei quadri e tagliarli a pezzi. Avevo bisogno di un falegname, era agosto, ma ne trovai uno in via Bava”, ricorda. Vennero i favolosi anni Sessanta torinesi, quando la scena era vivacissima; e Nespolo, su quell’idea di mosaici al traforo, su quel moto ondoso e colorato che travolgeva e ricomponeva le immagini, elaborava curiosità e inquietudine. “Volevo contaminarmi”, mi dice mentre giocherelliamo con una spettacolosa bicicletta da competizione regalata dal costruttore Colnago dopo che lui ha disegnato [...] la maglia rosa per il Giro d’Italia, e già come contaminazione non è male. “L’arte era diventata sempre più un optional, scompariva dalla vita reale, l’artista era un monaco o un santone che celebrava una messa incomprensibile. Io sentivo il bisogno di portarla nell’esistenza concreta”. Cercò la letteratura, mettendosi a lavorare con Edoardo Sanguineti, scoprì il cinema e la pubblicità “che era quantomeno un settore considerato accettabile, vista la tradizione da Toulouse Lautrec in poi, e tuttavia ormai in ombra”; le auto, la televisione, gli oggetti della vita reale. “Ho disegnato per Renzo Arbore la sigla animata di Indietro tutta, ma avevo già fatto 18 animazioni del genere per la Rai; mi sono messo a dipingere sulle carrozzerie delle automobili, prima con la Renault poi con la Fiat, a organizzare gli artisti sulle scatole di fiammiferi, a inventare orologi, quando ancora era lontano il boom degli Swatch. Erano modi per portare l’arte fuori dal suo recinto. Credo persino di essere stato tra i primi ad andare al Maurizio Costanzo Show”. Ma per tutto questo non serviva una bottega grande quando una fabbrica. “No, è stata una scoperta successiva. Sono arrivato qui all’inizio degli anni 80, semplicemente perché ero stufo di lavorare in uno studio seminterrato, che mi aveva passato Piero Gilardi. Trovo questo edificio, che dopo il trasferimento della Gallino era stato frazionato e diviso tra varie aziendine. Se ne era liberato un piccolo pezzo, l’ho comprato. E man mano che se ne andavano gli altri, io mi allargavo. Alla fine ho preso tutto. Penso di aver messo insieme uno stabile abbastanza organico, ben orchestrato”. E che musica suona? “Quella di una bottega rinascimentale, e viva. L’artista non può esistere senza una committenza, nonostante tutte le ideologie illusorie tardo e pseudo-romantiche. È al servizio del mondo e della sua attività visiva. Lo studio deve essere un laboratorio ma anche un punto di intersezione culturale, che funzioni davvero. Qui per esempio ho 15 mila libri: non si può vivere chiusi dentro i propri quadri”. La bottega serve per produrre, cercare, sperimentare, ma anche ad altro. È una macchina ideativa e mediatica. “L’ho imparato da Baj, tanti anni fa: bisogna gestirsi da soli. Sarà pienamente legittimo, ma è infinitamente triste, starsene nella propria stanza in attesa del mercante. È una scelta che non fa per me. Negli anni 60 pochi di noi avevano un indirizzario, e Baj ci stupiva sempre tirando fuori tutti gli indirizzi dei critici internazionali, con quella sua aria da avvocato”. Nespolo capì che cosa cercava. “Mi fu chiaro che mi divertiva lavorare in questa maniera, creare un mondo attorno dove coesistessero il laboratorio, la parte espositiva, la parte mediatica, la ricerca, la progettazione, i contatti con la committenza, le mostre. L’organizzazione è fondamentale. Da qui gestisco le mie mostre in tutto il mondo [...] Organizzazione vuol dire usare i media. Magari andando [...] in giuria a Miss Italia. Perché no? Sanguineti non è stato forse a Sanremo? Mi butto fuori perché sono convinto che l’arte debba uscir fuori. Che cosa deve fare l’artista, solo operazioni ‘alte’? Non ne vedo la ragione. Warhol era un grande artista”. E ha teorizzato la “factory”. “Quella a me interessa meno. Non cerco la fabbrica d’arte, semmai la ‘casa d’arte futurista’ che non è mai esistita veramente, ma era pensata come qualcosa che fosse una presenza di natura soprattutto culturale. A me piace fare le cose con le mani, ma sono convinto che l’arte operi soprattutto mediazioni e non mi scandalizzano affatto quelli che con le mani non hanno fatto nulla, da Warhol a Mark Kostabi [...] La bottega di un artista è una struttura pronta a intervenire in operazioni trasversali”, sintetizza Nespolo. [...]» (Mario Baudino, “La Stampa” 28/8/2003).