3 febbraio 2005
Tags : Renè. Burri
Burri Rene
• Nato a Zurigo (Svizzera) il 9 aprile 1933. Fotografo. «[...] uno dei grandi della fotografia del ’900 [...] ”Una volta mi han scambiato per Helmut Newton. Ho detto, per carità, io non so mica fotografare le donne come lui. E delle donne non ho la stessa idea. E poi c’è un’altra differenza tra noi due. Lui quando era bambino aveva un giardino tutto per sè dove giocare ai castelli di sabbia. Io andavo ai giardini pubblici e dopo aver costruito un bel castello arrivava sempre qualcuno a distruggermelo. Allora ho capito che il mondo si divide in costruttori, che poi sarebbero gli utopisti, e in distruttori. Io sono un utopista”. [...] è nato a Zurigo nel 1933, ma le montagne svizzere gli sono sempre state un po’ strette. ”Quand’ero giovane - racconta - facevo delle escursioni con alcuni amici e alla fine di ogni ascensione mi staccavo dalla corda per precipitarmi sulla vetta. Non certo per la vanità di arrivare primo. Volevo godere della vista aperta, dell’orizzonte sconfinato: poter vedere tutto il mondo. Ma invece, arrivato in cima non vedevo che altre montagne. La macchina fotografica, pensavo, sarà la mia possibilità di staccarmi dalle montagne svizzere”. Così si iscrive alla Scuola di arti applicate di Zurigo e a insegnargli la fotografia, la grafica e l’uso della luce sono Itten, Williman e Fisler. La loro lezione gli servirà per il futuro, nelle sue immagini riesce a coniugare ragione ed emozioni, quando è incerto punta sulla prima. Con gli allievi di Fliser approda a Parigi nel ’50. ”Come per molti fotografi è lì che tutto è cominciato”. In quegli anni a Parigi ci sono Cartier-Bresson e Capa, Bishop e Doisneau, Ronis e Izis: tutto fanno ”fotografia umanistica”. Lui vorrebbe realizzare un reportage su Picasso ma gli va buca. ”Andai quindi dall’altra parte della Senna, da Magnum. Mi imbattei in una donna spagnola che in circa tre minuti passò in rassegna tutte le mie foto. Poi volle vederne altre, dissi che avevo solo dei provini. Lei ne cerchiò alcuni e mi disse di stampare le foto segnate e spedirgliele”. Lui pensò fosse una tattica dilatoria, comunque eseguì. ”Un bel giorno ricevo un pacchetto l’apro e scopro un numero di ’Life’ al suo interno. Buffo penso, Magnum mi invia un ’Life’. Lo sfoglio e scopro le mie foto, quelle del reportage sui sordomuti. Con la firma René Burri/Magnum”. Da allora diventa un colonna della famosa agenzia, per cui viaggia come una trottola dal Brasile alla Cina, dalla Spagna a Cuba, dalla Germania all’America (il suo libro sui tedeschi fu all’uscita un flop, ma oggi è considerato uno dei capisaldi della fotografia del ’900). A differenza di Cartier-Bresson non insegue ”l’istante decisivo”, per lui la fotografia è costruzione, non gli interessa la singola ”bella immagine”, lavora per sequenze, costruisce racconti. Senza dimenticare però, dice, che ”le buone foto sono come i taxi nell’ora di punta: se non si è abbastanza rapidi, li prende qualcun altro”. Con questa filosofia realizza alcune icone del nostro tempo come la foto di Che Guevara, ministro dell’industria della rivoluzione castrista, con il sigaro, all’Avana, nel ’63. [...] ”[...] Non ho però di Che Guevara un gran ricordo: per tutto il tempo in cui ho realizzato il servizio non mi ha degnato nè di una parola nè di uno sguardo”. Diverso l’atteggiamento degli artisti che ha ritratto nella sua lunga carriera. Picasso fu un po’ la sua ossessione giovanile. Riuscì a fare un servizio su di lui, arrivando in un albergo spagnolo, dove una cameriera che non sapeva chi fosse gli gridò ”Son già tutti qui”. ”E mi condusse - racconta - in una stanza dove una piccola orchestra suonava ballando intorno a un letto d’ottone. Sul letto, seduto, un uomo dirigeva la musica: Pablo Picasso. Gli domandai: posso fotografare? Approvò con la testa”. Di Picasso diventa amico, ma lavora anche con Giacometti, Yves Klein, Ingrid Bergman, Le Corbusier. Gira tanto che diventa famosa la battuta per cui quando alla Magnum chiedono dov’è Burri, la telefonista risponde ”In aereo”. [...] ”Sono sempre stato un collezionista. Da bambino raccoglievo l’acqua dei fiumi e dei laghi svizzeri e la mettevo in tante boccette. Un giorno un gatto saltando in un armadio me l’ha distrutta”. [...] Era a Teheran quando nacque il figlio dello scià: ”C’erano fotoreporter di tutto il mondo. I giornali volevano quella foto perché Reza Pahlevi aveva cambiato moglie e tutti erano curiosi di vedere se il bebè gli somigliasse. Aprirono le porte per pochi secondi e sembrò che tutti insieme stessimo crollando sulla culla del bambino. Per questo le infermiere hanno in quella immagine lo sguardo così spaventato”» (Rocco Moliterni, ”La Stampa” 2/2/2005).