Varie, 5 settembre 2004
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Handke Peter
• Griffen (Austria) 6 dicembre 1942. Scrittore. «Bisogna vederli per crederci, i manoscritti di Peter Handke. Pagine e pagine riempite rigorosamente a matita, una riga dopo l’altra, righe perfette, ben allineate, senza ripensamenti, solo raramente una aggiunta, minutamente annotata sul margine di sinistra della pagina. Sembrano esercizi di calligrafia, di quell’arte della bella scrittura che nel mondo islamico è considerata l’espressione artistica più pura, la rappresentazione della parola di Dio. La leggenda vuole che la mano dei grandi maestri calligrafi fosse guidata direttamente dai discendenti del Profeta, e non mi stupirebbe se anche Peter Handke credesse in cuor suo che a muovere la sua matita ci sia qualche forza divina. La scrittura è per Handke un controveleno, un antidoto al vuoto di esperienza del nostro mondo civilizzato e occidentalizzato. [...] Handke notoriamente non ha in simpatia i giornalisti. Ha scritto molte invettive contro di loro. Soprattutto da quando i giornali avevano aspramente criticato l’abbaglio che prese nella Jugoslavia in guerra, quando si schierò inopinatamente a fianco del nazionalismo serbo. Gli attribuirono giudizi politici che in realtà un impolitico come Handke non ha mai avuto. Per lui, per una serie di coincidenze - la familiarità col serbo-croato, la madre slovena, morta suicida quando era giovanissimo e per la quale aveva scritto Infelicità senza desideri - la Serbia si era trasformata in paese di sogno, in terra d’origine della poesia. ”Il paesaggio jugoslavo - scrive ne La Ripetizione - gli apparve nella sua ”letteralità’ come scrittura, come terra descrivibile, alla quale si poteva dire ”La mia patria!’, e questa apparizione era allo stesso tempo l’unica manifestazione di Dio che avesse avuto in tanti anni”. Ormai è passato un po’ di tempo e forse si è ricreduto. In ogni caso si è riconciliato con i giornalisti. [...] Vive a Chaville dal ”92, nella banlieue parigina, dopo aver lasciato Salisburgo e aver vagato per tre anni per il mondo senza avere nessun luogo da chiamare casa. [...] Nei suoi libri c´è spesso questa dimensione del viaggio. Uno strumento per scoprire noi stessi? ”Il viaggio è un modo di misurare la nostra capacità di percepire, di capire quanto sappiamo ancora ascoltare. [...]. Dopo che lasciai Salisburgo, quando la mia prima figlia andò a Vienna a fare l’università, sono sempre andato, da una parte o dall’altra. Per tre anni non ho avuto una casa. Ma chi va sempre, non arriva da nessuna parte [...] La letteratura medievale è stata per me una rivelazione. I romanzi epici. Josef von Eichendorff, Gottfried Keller, Adalbert Stifter. Raccontano storie d’amore di un tempo in cui all’amore si credeva davvero. Uno partiva per guadagnarsi l’amore, ed era lo stesso che guadagnarsi il mondo [...] La sola letteratura che mi interessa davvero è quella utopistica: la ricerca di quello che il mondo può essere. Oggi invece tutti vorrebbero che uno scrivesse come Philip Roth, nel senso di avere una costruzione, a good story, tutto bell’e pronto. Per me però quella è letteratura di seconda categoria. Io sono uno che cerca. Del resto cercavano anche gli americani, al tempo di William Faulkner, di Thomas Wolfe, da non sbagliarsi con Tom Wolfe per carità. Io ho una trama ma preferisco nasconderla, fare lunghe deviazioni, prendere vie traverse, vagare attraverso paesaggi epici come un fiume meandrico. Certo uno deve stare attento a non cadere nella trappola della lingua. Il tedesco è magnetico. C’è sempre il rischio di scivolare nel formalismo, o, peggio ancora, nell’autocompiacimento, nella mistica. La lingua bisogna amarla e combatterla insieme, è un passaggio continuo tra Scilla e Cariddi, questa è la cosa affascinante. Il mio traduttore americano, un uomo straordinario che purtroppo è morto una decina d’anni fa, mi diceva, a proposito di qualche mia frase meandrica: Peter, l’ho dovuta raddrizzare, devi capirmi. E io ho sempre letto con gran piacere il suo inglese, che risultava fedele anche se rimetteva diritte le frasi attorcigliate. Quello che mi spinge a scrivere è solo una Sehnsucht, un desiderio pungente, doloroso, nostalgico. Di lì mi vengono le immagini, il ritmo; non sono Bob Dylan ma c’è melodia nella mia scrittura. Penso a certi cantanti che non hanno un testo ma senti che hanno qualcosa da dire. Non m riconosco altro talento se non questa Sehnsucht, questo desiderio struggente. Qualche volta inseguo il più piccolo sogno. Forse dipende dallo scrivere con la matita. Credo però che ormai il mio periodo epico sia finito. Scriverò racconti, certo, ma non più romanzi epici. E mentre lo dico, sento però di nuovo un desiderio. la cosa più bella, stare così, fermi, lasciare che la storia venga da sola. Come diceva Teresa d´Avila: lasciare, sempre lasciare. Solo chi si lascia andare, senza voler sapere, senza opinioni, senza riflessione, ha una chance che la vita gli dia il dono della percezione” [...]» (Vanna Vannuccini, ”la Repubblica” 8/1/2005).