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 2004  luglio 22 Giovedì calendario

Durham Jimmie

• Nato a Washington/Arkansas (Stati Uniti) nel 1940. Artista. «Sapiente incantatore dalle belle mani, dai grandi occhi azzurri, dai lunghi capelli grigi, dalla voce pacificante come una pozione magica, che ha accanto la bella moglie, l´artista Maria Thereza Alves, che nei primi anni ’90 stava seduta in poltrona come una finta selvaggia nuda nella famosa (tra gli appassionati) performance intitolata appunto Savage. Durham è un vero pellerossa della tribù cherokee, però senza piume in testa, con un certo disappunto dei più piccini. Sorride tuttavia con l´autorevolezza di uno sciamano antihollywoodiano, e tira fuori dal portafoglio tre piccole foto consunte. Questo è un grande capo cherokee del 1860, e mostra un tipo in doppiopetto con la barbetta alla Lincoln; questo è un grande capo del 1911, cioè un signore elegante come un Vanderbilt d´epoca: questo è un grande capo del 1990, che risulta essere una robusta e sorridente ragazza alla moda. Della sua gente gli è rimasto, oltre all´orgoglio di appartenenza e il dolore della cancellazione, la passione per la pietra [...] "l´arte non può essere insegnata. Perché non esistono più abilità manuali, come polverizzare e mescolare i pigmenti o il tagliare le pietre. Anche saper usare il computer e la videocamera non sarà di aiuto. Un buon laboratorio è lavorare insieme, perché non si è creativi da soli, ma nel dialogo. Non puoi fare arte se sei povero di pensiero". Durham, che è nato nel 1940 in Arkansas, non è mai stato "un giovane artista", né ha mai studiato in scuole d´arte o licei. A 16 anni scappa dalla sua gente e sopravvive vendendo ai turisti oggettini di legno intagliato, come sanno fare i cherokee per le loro cerimonie. "Ma era una cosa schizofrenica, perché sentivo di tradire il mio popolo svendendo l´indianità, e quando cominciarono a dirmi, sei un artista, intendevano un etnoartista, da confinare nel ghetto confuso dei neri, dei chicani, dei pellerossa, del folklore. Di un´arte comunque minore, non innovativa. Mi misi a far teatro a Houston, ma solo per la gente di colore, perché nel Sud negli anni ’60 si praticava ancora la segregazione razziale, c´era l´università per soli neri, in Alabama c´erano stati scontri a fuoco con la polizia bianca". Umiliazione e impotenza. Decise che era meglio diventare europeo, e si trasferì a Ginevra. "Non sarei mai più tornato negli Stati Uniti, ma poi scoppiarono i fatti di Wounded Knee, con tutti quei nostri morti, e cambiai idea". Per anni è stato uno degli attivisti politici dell´American Indian Movement, e lo ha rappresentato alle Nazioni Unite. Dal 1994 è tornato a vagare in Europa, da sei anni vive a Berlino, "ma è probabile che tra un po´ mi stabilirò a Roma, il mio stato di grazia è sentirmi ovunque un orfano homeless". Le sue opere vengono invitate alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel, all´ICA di Londra e alla Whitney Biennal di New York. Pezzi famosi, La biancheria di Pocahontas, un paio di mutande rosse da donna con piume e collane di semi e perline: "Appartenevano a una vecchia ballerina brutalmente sfrattata dalla sua casa di New York per lasciar posto ai ricchi, ed erano state gettate in strada con tutte le sue cose". Non rappresentano alcuna indianità ma l´esclusione che accumuna tutti i poveri. Altra opera tra tutte le altre di massimo fascino, misteriosamente composte da teschi di animali, talismani, piume, pezzi di legno, rami, brandelli di stoffa, conchiglie, tubi, reggipetti, serratura, radici, ganci, collane, corna, l´ironico Autoritratto: dedicato agli stereotipi di indianità, "che sarebbe come dire che tutti gli italiani sono mafiosi e suonano il mandolino". E´ una scultura alta come lui, il volto dipinto come i pellerossa dei vecchi western, un occhio di turchese, finte trecce ispide e il corpo nudo, percorso da sue scritte che lo raccontano. "Il signor Durham crede di essere dipendente da alcol, nicotina e caffeina e non dorme bene". "Capezzolo inutile". "I peni indiani sono di solito grossi e colorati". "Sono un tipo spensierato". "La mia pelle non è così scura, ma certo ci sono indiani con la pelle color rame". [...] "Mi pare che i giovani artisti oggi vogliono soprattutto diventare ricchi e celebri, una cosa orribile perché se soggiaci alle mode non pensi più, diventi stupido. Mi hanno chiesto, come ha fatto a durare così a lungo? Risposta, la mia ricetta è starmene nascosto [...] Per un artista è impossibile un totale disimpegno politico, dovunque vai trovi gli oppressi, i poveri, come da voi gli extracomunitari. Mi sto interessando alla minoranza Inuhi, privata della sua terra in Groenlandia, consegnata dalla Danimarca agli americani per le loro basi missilistiche» (Natalia Aspesi, "la Repubblica" 22/7/2004).