varie, 21 luglio 2004
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MATTIACCI Eliseo Cagli (Pesaro e Urbino) 13 novembre 1940. Scultore. «Lo scultore del cielo: nessuno come lui, in Europa, ha inteso svellere la scultura dalla sua fatale terrestrità, e slanciarla a dialogare con orizzonti non più misurabili
MATTIACCI Eliseo Cagli (Pesaro e Urbino) 13 novembre 1940. Scultore. «Lo scultore del cielo: nessuno come lui, in Europa, ha inteso svellere la scultura dalla sua fatale terrestrità, e slanciarla a dialogare con orizzonti non più misurabili. Da quando ha scosso la montagna con il suo gong, da quando ha disseminato un ghiacciaio di segni dispersi d’alluminio, da quando ha disposto lungo una riva, così che guardassero il vuoto profondo del mare, le forme antiche, minacciose e giocose insieme, dei suoi Capta spazio, ogni volta Mattiacci ha dato figura, indimenticabile, ad una tensione fra terra e cielo: ha accolto, stringendola nelle mani forti, l’energia che avvertiva ovunque attorno a sé; l’ha traguardata in immagine; l’ha resa forma. è un doppio andare: da noi verso l’infinito che ci sovrasta; e dall’indeterminato al presente. Da sempre, a guardar bene, è stato così, per Mattiacci. Da quando - ed era appena un’alba del suo tragitto maturo: il 1965 - il filo spinato s’ammatassava in Parafulmine, attirafulmine, neutro, e dai grandi gomitoli atterrati spuntavano uncini d’ ottone: quasi sguardi rivolti al cielo, in attesa. Da quando il tempo scendeva a scrivere il suo scorrere ritmato sulle lastre d’acciaio, di rame, di cristallo, di ferro di Alba giorno tramonto notte (1975). Da quando i trucioli di metallo s’abbarbicavano alla parete, mossi soltanto dalla forza misteriosa e nascosta d’una calamita (Calamita e trucioli, 1969). Da quando la serpentina d’un fulmine, una falce di luna, le ali d’un uccello partivano e atterravano sulle Piattaforme del ’78. Da quando pianeti e meteoriti vagavano, s’incontravano ed esplodevano negli spazi compressi e saturi dei cieli di carte strappate della serie Predisporsi a un capolavoro - Cosmico astronomico (1981). Da quando, nel 1984, Alta tensione astronomica, che è probabilmente una delle opere più perfette e felici della luminosa vicenda della scultura europea della seconda metà del XX secolo, fu esposta al Kunstforum di Monaco: un’opera nella quale sul letto di pallini di piombo, raccolti a terra in forma circolare, volteggiavano leggere le sottili lamine d’ alluminio, attirate verso l’alto. Ecco, uno straordinario crescendo sembra tendere senza cesure il lavoro di Mattiacci dai suoi esordi a quel traguardo. Ma c’è un momento ulteriore in cui, nel suo immaginario, la "figura" dell’ energia che scorre fra terra e cielo diviene, ancor più di quanto non fosse stato sino ad allora, o forse solo più esplicitamente, il tema dominante della sua riflessione: e questo momento può dirsi che muova dal Carro solare del Montefeltro, che è del 1986. Non è frequente (non lo è mai stato, in nessun secolo e in nessuna latitudine; ma ancor meno lo è nel tempo attuale: ove ogni cosa, ed anche l’ energia creativa, sembra consumarsi in un tempo brevissimo) che un artista, per quanto grande, sappia dar luogo in età ormai matura ad una sua stagione, seconda rispetto a quella d’inizio, altrettanto forte e innovativa. Mattiacci ha saputo toccare questo traguardo: né solo muovendo passi congruenti al suo tragitto d’avvio (cosa che, s’ è visto qui stesso pur brevemente, egli ha fatto mantenendo nel tempo il suo immaginario prossimo a talune fondanti e inalienabili sue suggestioni), ma istituendo per sé un confine ulteriore, che rammemorando il suo passato lo spingesse a nuovi raggiungimenti. Il Carro solare del Montefeltro, in tal senso, con l’andare dei due grandi dischi di ferro sulla via aperta loro dai lunghi binari, e con quel terzo disco avventurosamente, rischiosamente sollevato verso il cielo, come a catturarne la luce e l’energia necessarie al suo avviarsi, mette in figura quanto era sempre appartenuto a Mattiacci: quella sonda gettata, con l’azzardo di un "coup de dé", oltre il nostro orizzonte, in uno spazio vasto, lontano, sconosciuto. Ma altro, insieme, lo nutre: ed è quel senso di forma chiusa - perfettamente rappresentata dall’ opposizione, generatrice di moto, fra le concavità e le convessità dei dischi; e ancora dal confliggere, lasciato in vista, fra asperità e cedevolezza delle forme che lo costituiscono - che consegna quest’ opera a una vicenda della scultura moderna che va oltre, senza rinnegarla ma come sedimentandone i sensi più fecondi, la congiuntura post-minimalista entro la quale il lavoro di Mattiacci era nato. Tante opere, magiche, son seguite a quella, che è lecito porre a capo del nuovo avvio di Mattiacci. Fra le più ricche di fascino, sono certo quelle della serie intitolata a Le vie del cielo: caste d’una purezza formale che scende dalla stessa semplicità del pensiero che le ha generate, con i due grandi binari che traversano il disco d’ acciaio e, oltre quello, proseguono la loro corsa verso l’ ignoto. Le ho viste collocate all’ aperto, a dialogare con tronchi antichi e lontani orizzonti: e non perdevano neppure un grammo della loro forza in quella sfida che sembravano voler dettare alla natura» (Fabrizio D’Amico, "la Repubblica" 12/7/2004).