L’Indipendente 27/06/2004, 27 giugno 2004
Gli ultimi istanti Il 28 giugno del 1940, il San Giorgio galleggiava già da oltre un mese nello specchio d’acque dove la baia, a occidente, confina con il mare
Gli ultimi istanti Il 28 giugno del 1940, il San Giorgio galleggiava già da oltre un mese nello specchio d’acque dove la baia, a occidente, confina con il mare. Sul lato opposto, a oriente, la costa era il limite della spianata di Sidi Mahmud, con le piste del Campo d’aviazione T2. Tra le due rive, ovvero tra quella a ridosso delle unità navali e quella dove cadde l’SM.79 di Balbo, posso calcolare la distanza e l’approssimativo tempo occorrente a un aereo trimotore per sorvolare la baia. Dal punto dove iniziò il tiro antiaereo al punto dove l’SM. 79 cadde. Prima di giungere a Tobruch, le mie elucubrazioni sul tempo di volo su quella baia, mi avevano suggerito una durata d’almeno uno o due minuti. Tanti, se cadenzati da una ridda d’esplosioni attorno e davanti all’aereo ormai a bassa quota. Quel calcolo dei tempi osservando Tobruch dalla sommità della torre, mi appare inesatto. Occorre più tempo a descriverlo, il volo da sponda a sponda, di un aereo d’epoca, di quanto non ne possa esser trascorso effettivamente. Calcolando una approssimativa velocità del trimotore in atterraggio, motori al minimo, flap fuori, per coprire lo spazio aereo tra il San Giorgio e la riva opposta quell’aereo non può aver impiegato più di dieci, quindici secondi. Di questo voglio convincermi. Desidero sia questo il tempo reale di quel tratto di volo. Se fu tale posso credere che a bordo dell’aereo di Balbo non ci si sia potuti render conto di trovarsi al centro d’una salva di cannonate e di raffiche di mitragliatrice. Se i colpi sono esplosi alle spalle dell’SM.79 - è stato detto da alcuni esperti - all’interno d’un rumoroso aereo trimotore e senza aperture laterali, difficile siano state viste o udite le esplosioni dell’antiaerea. Né i lampi dei colpi traccianti delle mitragliatrici. Se questa non è una consolazione, ma ipotesi giusta (e io credo lo sia), l’orrore della fine è stato forse percepito solo dai due piloti e solo all’ultimo istante. Quando un proiettile ha centrato e fatto esplodere i serbatoi di carburante; o forse quando ha colpito proprio loro. Il quadro d’insieme consente di sperare. Sperare che sino all’ultimo istante chi si trovava all’interno di quella stretta e buia carlinga non si sia accorto d’essere giunto al suo ultimo istante di vita. Se a questo riuscirò a credere e vivrò in questa certezza, mi provocherà meno orrore e m’accenderà minore rabbia, il sentir nominare la baia di Tobruch. Scendo la stretta scala, riattraverso la corte dalle pareti tappezzate con quelle tombe incise da centinaia di nomi (e da altre centinaia senza nome). Tanti caduti, tanto dolore eppure quanto qui misuro è solo minima parte del consuntivo delle perdite accumulatesi dal ’40 al ’43. Massacro di quattro eserciti, costato solo alle forze italo-tedesche ottomila aerei, seimiladuecento cannoni, duemilacinquecento carri armati, settantamila veicoli, duemilioni e mezzo di tonnellate di naviglio mercantile e due milioni d’uomini fra feriti, prigionieri e caduti sul campo. Uno di loro si chiamava Nello Quilici. Caduto nel pieno della sua vita professionale e affettiva, partito volontario per il fronte d’una guerra della quale aveva visto avvicinarsi, e crescere l’inevitabilità. E che nessuno era riuscito ad impedire. Folco quilici