L’Indipendente 27/06/2004, 27 giugno 2004
il sacrario Nel mio sopralluogo, muovendo nell’area di quella che fu la piazzaforte, ho potuto osservare la baia dalla cima di una torre di pietra rosso cupa, alta sulle acque
il sacrario Nel mio sopralluogo, muovendo nell’area di quella che fu la piazzaforte, ho potuto osservare la baia dalla cima di una torre di pietra rosso cupa, alta sulle acque. massiccia, con una sola apertura sui quattro lati, nessuna finestra o ingresso secondario. In un pesante portone sotto un maestoso arco d’ingresso, s’apre una piccola porta. Di qui entrano nella torre i gruppi di turisti, in maggioranza tedeschi o inglesi che giungono a Tobruch per visitarne i campi di battaglia. E sono desiderosi di visitare l’edificio, sacrario di Rommel e dei suoi soldati. Il nome del Feldmaresciallo, scolpito nella parete d’ingresso, si para di fronte al visitatore appena supera il portone. Un raggio di luce riflesso dalle acque della baia, illumina le cubitali lettere gotiche. Proseguendo all’interno ci si trova di fronte alle tombe dei caduti, inserite nella neo-gotica costruzione. I nomi o le scritte ”soldato ignoto”, si inseguono e sovrappongono in linea militarmente ordinata secondo i gradi. Centinaia di caduti lasciati a Tobruch per testimoniare le battaglie di Rommel. Furono 18.594 quelli dell’Afrika Korp in Libia e più di 3400 i dispersi. Altri dati completano il quadro e offrono misura dello scontro protrattosi per i 40 mesi di guerra in Africa settentrionale: ventitremila caduti italiani, trentacinquemila dell’VIII Armata Britannica. Circa quattromila gli americani impegnatisi solo negli ultimi mesi, sul fronte tunisino. Alla sommità della costruzione sono giunto salendo una ripida scala in pietra, una sorta di stretto corridoio volutamente tenebroso. La fatica mi sembra interminabile e quando sbuco da un ultimo, stretto varco nel passaggio dal buio alla luce resto abbagliato, come certamente aveva progettato l’architetto della Torre. Chiudo gli occhi, li riapro a fessura e lentamente li riabituo a una luminosità raddoppiata dal gioco dei riflessi. Mi guardo attorno notando un’altra astuzia dell’architetto. Per come sono disposti, dai bordi della terrazza superiore non può sporgersi chi sale sin quassù, anche se volesse non riuscirebbe a vedere la corte interna, le mura coperte da nomi dei caduti sulle loro tombe. Qui, dall’alto, si gode solo il paesaggio. La vita, non la morte. Dal parapetto posso inquadrare la baia nel suo insieme, non al presente, ma qual era nel 1940. Le navi qui ancorate dall’inizio della guerra erano l’incrociatore San Giorgio, i CT Aquilone, Borea, Turbine e Nembo. Accanto a loro i resti di quanto gli aerei inglesi avevano affondato appena accese le ostilità: il CT Ostro, il piroscafo Manzoni, la motovedetta Berta. Là dove invece la baia si stringe, ai moli attraccavano unità da trasporto con rifornimenti provenienti dall’Italia. Petrolio soprattutto, ma anche armi, viveri; carichi preziosi perché erano pochi, lo sappiamo, i mercantili che riuscivano a giungere sin qui sfuggendo ai sommergibili inglesi.