L’Indipendente 27/06/2004, 27 giugno 2004
Michelangelo Antonioni, uno degli allievi più cari a mio padre, così racconta il pomeriggio del 29 giugno 1940: «Dalla Torre dei Caduti venne il primo colpo
Michelangelo Antonioni, uno degli allievi più cari a mio padre, così racconta il pomeriggio del 29 giugno 1940: «Dalla Torre dei Caduti venne il primo colpo. una torre massiccia, tozza, e la sovrasta una gran campana i cui rintocchi cadono pesantemente sulla città a ogni evento memorabile, anche nei giorni di festa, all’uso medioevale. Quel 29 di giugno, nelle primissime ore del pomeriggio, la campana scoccò un tocco. E poi un altro, e un altro ancora. Staccati, pesanti, colmi d’uno sgomento vago. Sulla città cadde un silenzio improvviso, solo s’udivano quei rintocchi, presentimento d’angoscia senza fine. Nelle strade il traffico s’arrestò come spento, ad un tratto. Tutti, interrotte le loro faccende, stettero ad ascoltare i rintocchi che scivolavano lungo i muri, dentro le finestre e le porte, come orme di fantasmi. Era tempo di guerra e la guerra era lì, in quei rintocchi. S’udì una voce di donna dire forte, in dialetto: ”I dis ch’è mort Balbo”». Da quel giorno in poi, mentre da ragazzo mi facevo uomo, i racconti di ”quel giorno” si accumularono, proporzionalmente al desiderio di capire cosa nascondessero le voci ”poco chiare” che accompagnarono la notizia della morte di Balbo e dei suoi compagni. Mio padre era con lui per redigere un ”Diario”, testimonianza nella tragica impreparazione italiana allo scontro frontale con l’Impero inglese. Come tutti i parenti di chi perì nell’’incidente”, mia madre, i miei fratelli e io, ricevemmo nella nostra casa di Ferrara numerose visite di chi rientrava dal fronte libico: in licenza o rimpatriato per ferite o malattia e raccogliemmo da ”chi aveva visto cadere l’aereo di Balbo”, un’antologia di versioni diverse. Ricordavano in tanti quella vampata di fuoco accendersi nel cielo della baia di Tobruch. Solo pochi s’erano subito resi conto chi fosse stato abbattuto. «Finalmente ne abbiamo tirato giù uno» era stato il commento di chi riteneva inglese l’aereo colpito. Comprensibile soddisfazione perché fino a quel giorno la nostra antiaerea, rabbiosa ma imprecisa, aveva potuto vantare ben pochi successi. Al campo T2, dove Balbo stava per atterrare, si fece addirittura festa mentre l’aereo del Maresciallo bruciava. Una testimonianza drammatica (e inedita, fino a oggi) la raccolse mio fratello maggiore, Vanni, giunto in Libia, l’indomani dell’incidente. Aveva trovato posto su un volo speciale e sbarcò a Bengasi quando tutto era accaduto da poche ore: «(...) Egil Chersi, studente con me, allora ufficiale di complemento in marina, imbarcato su un cacciatorpediniere nella rada di Tobruch, mi presentò Del Pin, tenente di Vascello, comandante del tiro del San Giorgio. Mi disse che i suoi pezzi erano quelli che avevano colpito l’aereo (...) Quel giorno, sulle navi non avevano ancora dato il comando del cessato allarme per il bombardamento inglese. I serventi erano ai pezzi quando ”sentirono”, non videro, rumore di aerei da occidente. Il cielo era coperto di sabbia per il vento. Il sole al tramonto diminuiva la visibilità, poco dopo, quando dalle navi si cominciavano a vedere confuse sagome di due aerei, dalle batterie sulla riva occidentale del golfo, quelle che avevano il sole alle spalle e gli aerei sopra la testa, cominciarono a sparare. Le navi subito seguirono. Del Pin, piangendo quasi, mi disse «noi li abbiamo centrati». «(...) All’epoca, tutti quelli con cui parlai erano certi che non si era trattato di un incidente ma di un fatto voluto, profittando di un’occasione favorevole».