Varie, 24 giugno 2004
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Hilfiger Tom
• Elmira (Stati Uniti) 24 marzo 1951. Stilista • «Occhi azzurri, sguardo furbetto, sorriso american style [...] ha le stimmate del vero Wasp. [...] Un classico esempio di self made man [...] entrato nel mondo della moda nel 1969 con solo 150 dollari, un negozio e 20 paia di jeans bell bottom, ora re dello street wear con una società per azioni [...] in America il nome di Hilfiger è stato lanciato dai rapper di colore, vere icone dello style per i giovani [...] Amy Slinder del “New York Times” lo ha liquidato scrivendo: “Il suo più grande fardello stilistico è decidere dove mettere il logo” [...]» (Antonella Matarrese, “Panorama” 24/9/1998) • «[...] imperatore del basic con un debole per Edgar Degas [...] Non è eresia che Hilfiger usi l’emblema yankee per eccellenza per pompare un paio di jeans [...] Figlio di un gioielliere e di un’infermiera, cresciuto tra cereali e cattolicesimo, già a 17 anni Hilfiger dimostra fiuto da pecunia: apre nella natia Elmira People’s Place, negozio con mura d’ebano e incenso che vende candele, pantaloni a zampa d’elefante e giacche patchwork. Con momenti di gloria: quando un nubifragio seppellisce la città sotto nove metri d’acqua, Hilfiger e compagnia traslocano i vestiti all’ultimo piano. E i locali fanno la fila per l’unicoi guardaroba asciutto. Otto anni dopo la bancarotta, primo e ultimo fallimento [...] Sposa Susan Cirona, conosciuta in un negozio, e per sette anni (anche durante la luna di miele a Bombay) disegnano per ditte jeans: Jordache, Tatoo e Pepe. Nell’84 riceve un’offerta da Calvin Klein, ma lo blocca Zvia, veggente di Los Angeles: “Aspetta, sta arrivando di meglio”. Il giorno dopo incontra Mohan Murjani, re del tessile indiano già patrono di Gloria Vanderbilt, che decide di finanziargli la sua linea. Test della vorticosa crescita Hilfiger? Murjani è stato rimpiazzato da Silas Chiu, re del tessile di Hong Kong, Calvin Klein è ora un concorrente e la Pepe fa parte della scuderia Hilfiger. Il look fortunato? “I classici, che prendo di peso e rielaboro: pantaloni chinos, blazer blu, camicie button-down, mocassini: sono la mia spina dorsale”. Ma l’uniforme che dà visibilità mediatica a Hilfiger è quella streetwear, ovvero “da strada”: magliette, jeans, parka, mutande, berretti da baseball, piumini, scarpe da ginnastica. Tutti tatuati da enorme logo: la scritta Tommy Hilfiger più bandiera bianca rossa e blu di stampo nautico (passione di casa). Da quando, una notte del ’94, il rapper Snoop Doggy Dog si è presentato con una sua maglia extra-large in tivù, Hilfiger è diventato un totem dei teenager neri. “Altri stilisti non hanno mai accettato il potere della Black Urban Youth (acronimo di B. U. Y, “compra”, n. d. r.). Io invece li ho coccolati perché alla fine della giornata sono loro i veri portatori di trend, quelli che i teenager bianchi seguono”. E Hilfiger, al contrario di altri, non crede che lo streetwear sia una nicchia volubile: “Il cliente tipo è fanatico e leale a quattro punti cardine: logo, cantanti, atleti e bibite. Viviamo nell’era dei grandi marchi, che sono droghe assolute”. Mentre Hilfiger infiamma le folle, i critici di moda lo detestano. Amy Spindler del New York Times lo liquida così: “Il suo più grande fardello stilistico è decidere dove piazzare il logo”. [...] alcuni, come Liz Tiberis, direttore di Harper’Bazaar America, si dimostrano più concilianti: “Andiamo, qualcuno dovrà pur vestire l’America”. Ma è lo stesso Hilfiger [...] a non considerarsi stilista ortodosso: “Sono un creative director, supervisiono il marketing, la pubblicità, le sfilate, l’immagine presso il pubblico. Anche se disegno diversi prodotti, non mi ritengo un totale innovatore tipo John Galliano, che crea ciò che non c’era” [...] quando partorisce un nuovo prodotto non si fa pregare per testarlo anche personalmente on the road. Forse questo scarso “Io Stilistico” lo rende vulnerabile agli attacchi altrui. Come quello di Ralph Lauren, che dalle pagine di New York Magazine gli ha mandato a dire: “Hai rubato i miei vestiti”. Asciutta la replica: “Lauren è un concorrente. Con una differenza: il suo cliente è più vecchio”. Qualcuno lo accusa anche di sfruttare la comunità nera senza dimostrare nei loro confronti alcun tipo di rconoscenza. In realtà ha procurato contratti discografici a rapper in embrione [...]» (Benedetta Pignatelli, “Specchio” 18/7/1998).