Varie, 24 giugno 2004
GIUDICI Giovanni
GIUDICI Giovanni Le Grazie (La Spezia) 26 giugno 1924, La Spezia 24 maggio 2011. Poeta • «Si definisce un ligure diseducato a Roma - dove, dopo la “deportazione” in collegio, visse con la nuova famiglia paterna per altri ventitré anni, fino al ’56 - e poi redento a Milano. Ma nel quadrangolo Liguria-Roma-Milano, poi di nuovo (e definitivamente) Liguria, c’è una sacca temporale trascorsa in Piemonte, lavorando a vario titolo per la Olivetti. Era stato prima nella biblioteca dell’Azienda, a Ivrea, quella sorta di “moderna Atene periclèa”, così la definirà, irta d’intellettuali “adrianèi”, come venivano chiamati i seguaci del patron, l’ingegnere Adriano. Lui, che esordiva allora come poeta, avrebbe ricordato con epigrammatica ironia le serate trascorse all’hotel Dora - il principale della cittadina – “dove s’affacciano a quest’ora - gli uomini di successo”, e il locale circolo del cinema, sulle cui poltrone “educatamente s’attedia - il pubblico di gente intelligente - più della media”. Vi incontra tanti nuovi amici, da Pampaloni a Fortini, da Ludovico Zorzi a Paolo Volponi, ma non si riconosce del tutto nell’ideologia dominante in quella città-fabbrica. E più tardi, sentendosi catalogare come un “olivettiano”, obietterà di considerarsi soltanto “un intellettuale che lavora alla Olivetti”.[...] La sua rete di amicizie milanesi andava da Giansiro Ferrata a Luciano Anceschi, da Elio Vittorini a Gillo Dorfles, da Luciano Erba a Bartolo Cattafi, da Marco Forti a Giovanni Raboni. E intensa, benché a tratti tumultuosa, era la frequentazione di Franco Fortini. Collaboravano tutti e due ai Quaderni piacentini, la rivista di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi (per Giovanni, un’amica vera). E tutto contribuì a conciliare, nella sua formazione, il marxismo con “l’educazione cattolica” - si chiama così un suo libro - riducendo quest’ultima a un ricordo poetico, una metafora delicata dell’infanzia. “Ho vissuto per un quarto di secolo a Roma”, dice, “ma nella mia personale liturgia la chiesa per eccellenza è rimasta quella delle Grazie. Dove tante volte avevo servito messa, e dove l’Arciprete, che era di Sestri Levante, mi raccomandava: ’Studia, studia, Giovannino. Così da grande potrai diventare come il mio concittadino Carlo Bo’”» (Nello Ajello, “la Repubblica” 24/6/2004). «[...] ha perduto molto presto la madre, Alberta Giuseppina Portunato: “Avevo tre anni e cinque mesi. Non posso ricordare le reazioni immediate. Ho memoria di un vestito a quadretti, del fatto che andava a scuola, faceva la maestra, e io le chiedevo se mi portava un pezzetto di gesso perché pasticciavo su una piccola lavagna [...] Siccome insegnava, non stavo molto con lei. L’ho percepita perché vedevo su di me sguardi compassionevoli: questo bambino senza la mamma... Ma non ero diverso dagli altri bambini, facevo le cose che facevano i bambini della mia età. Poi ho avuto una matrigna che è stata buonissima [...] Ho avvertito la sua assenza, quasi dovendomi vergognare di non avere la mamma mentre tutti parlavano della loro. La maestra chiedeva: ‘Descrivete la vostra mamma’. E io che cazzo descrivevo? [...] non volevo nemmeno che si sapesse. Naturalmente si sapeva, perché vivevo nella realtà molto limitata di un paese [...] Avevo la matrigna, che era un donna molto limitata ma mi voleva anche molto bene [...] da ragazzo mi comportavo come tutti i ragazzi. Magari qualche volta avrò ricevuto qualche sguardo pietoso, che mi seccava ovviamente [...] Mia madre è morta di eclampsìa da parto: sono le convulsioni; poi è sopravvenuto un arresto cardiaco. Nell’età adulta, ma molto adulta, ben oltre i 40 anni, non come fatto pubblico, ma come sentimento privato, come stato d’animo, ho sentito questa assenza, questo vuoto [...] Me ne parlavano i suoi parenti: una sua sorella, che è stata una zia a me molto affezionata; suo padre; la sua matrigna (anche lei aveva avuto una matrigna). Non dei lunghi racconti. Anche a Le Grazie ero guardato spesso in modo affettuoso, ma pietoso, come le ho detto, quindi fastidioso. ‘Gli occhi di sua madre...’, mi dicevano per compiacermi. Ho fatto Empie stelle , dove per la prima volta parlo di lei, per cui sì, a un certo punto, facendo un discorso più difficile, la sua immagine è venuta a essere l’equivalente di un eterno femminino. Ma non su base libresca. Cioè: mi sono reso conto che è stata, dal punto di vista anche della mia vita sentimentale, una fortissima assenza [...]”» (Luigi Vaccari, “Il Messaggero” 19/5/2005).