Varie, 21 giugno 2004
Tags : Cindy Sherman
Sherman Cindy
• Glen Ridge (Stati Uniti) 19 gennaio 1954. Fotografa • «Ecco una storia curiosa: un critico d’arte scrive un resoconto di una presentazione fatta da Cindy Sherman del proprio lavoro al pubblico di una scuola d’arte. Mostra le diapositive dei suoi Still da film - la serie di fotografie in bianco e nero dove, in qualità di regista e attrice, proietta una serie di immagini da film degli Anni Cinquanta - e vicino a ciascuna, riporta il critico, la Sherman presenta il fotogramma reale del film su cui sono basate le sue immagini. Ciò che emerge da questo paragone, egli scrive, è che ”virtualmente ogni dettaglio sembra scontato: fino ai bottoni delle maglie, il contorno delle immagini, e persino la profondità di campo dell’inquadratura”. Per quanto sia irritato da ciò che questo paragone rivela circa il procedimento pedissequo della Sherman - la meticolosità, pennellata per pennellata, della copia - è sicuro che ciò che ricerca la Sherman sia, in ogni caso, il riconoscimento degli originali nell’incontro con questi Still, anche se non come fonti che aspettano di essere replicate, ma piuttosto come memorie che attendono di essere chiamate a comparire. Così parla dell’osservatore degli Still della Sherman, normalmente non identificati, ”mentre incomincia a ricordare l’immagine del film originale”. E dice: ”Se non fosse l’immagine del film originale da cui è tratto” quella che sovviene allo spettatore, ”allora si tratterebbe di una sua pubblicità, e se non fosse neppure quella, allora sarebbe una fotografia pubblicata con la sua recensione in un giornale”. A prima vista questa storia è sorprendente. Perché negli Still da film della Sherman non esistono ”originali”. L’originale di quelle opere non può essere trovato né in un ”film reale”, né in una pubblicità, e neppure in qualsiasi altra ”immagine” pubblicata. La condizione propria del lavoro della Sherman negli Still - e una parte del loro significato, potremmo dire - è la natura di simulacro di ciò che esse contengono, la loro condizione di essere una copia senza originale. La struttura del simulacro, allora, insieme con l’esplorazione che ne opera la Sherman, è qualcosa che necessita di un’analisi. Ma prima di farla, vale la pena insistere sulla storia delle diapositive, col suo ipotetico svelamento di un ”originale”, in altre parole il manifesto, urlato, deprezzamento stile Rashomon in essa presente. Avrà mai mostrato la Sherman film reali a fianco alle sue opere? E se lo ha fatto, per quale motivo? Considerato che le sue immagini operano una personale proiezione di un intero repertorio di stereotipi hollywoodiani o di eroine della New wave, insieme con le vere atmosfere dalle quali sono tratte - lo spigoloso abitante della notte da film noir, una delle coraggiose ma vulnerabili ragazze in carriera di Hitchcock, l’innocente della piccola città travolto dalla metropoli dei B movies, un portatore dell’alienata disperazione della New wave, e così via - e mettono in scena tutto questo immerse in una sorta di memoria intensa e generalizzata, che cosa allora potrebbe significare un paragone di uno Still di Cindy Sherman con uno still tratto da un film di, per dire, Douglas Sirk? Potrebbe forse indicare che il senso che le due immagini incontrano - non importa quanto diversi siano i loro effettivi dettagli - deriva dal modo in cui, sia la Sherman sia Sirk, (insieme con l’attrice di Sirk) si concentrano immaginativamente su una fantasia ricordata - la stessa fantasia ricordata - di un personaggio, che è "egli stesso" non solo fittizio, ma, proprio come Emma Bovary, la creatura di una finzione, un personaggio che si agita nella trama di tutti i romanzi che legge? Potrebbe significare che dagli stereotipi richiamati alla mente da queste finzioni, in rapporto con le creature di questi romanzi fantasticati, da queste scatole nelle scatole di finte "memorie" nasce sempre ciò che sembra essere un’autentica copia, anche se non esiste alcun originale "reale" che possa essere trovato? Così che la copia di Sirk e la copia della Sherman misteriosamente si trovano a sovrapporsi come la luce di due torce che si muovono nel buio della notte verso lo stesso obiettivo vagamente percepito? Congetturiamo che questa sia la ragione per cui la Sherman potrebbe mostrare le sue immagini insieme a, per fare un esempio, quelle di Sirk. Perché allora un critico dovrebbe non riconoscere la natura del paragone, facendo di una la copia dell’altro, inteso come l’originale: facendo di Cindy Sherman, l’artista, un’autrice che copia il ”reale” del film hollywoodiano? Roland Barthes, il critico strutturalista, avrebbe una parola con cui spiegare questa strana allucinazione; questa parola è mito: il critico d’arte che scambiò il paragone con una replica - Senza titolo, Still da film = immagine presa da un film reale - era preso nella morsa del mito, lo stava consumando, direbbe Barthes. Barthes userebbe certamente la parola mito in una precisa accezione limitata e tecnica, e se è utile spiegare come egli abbia impiegato il termine, è perché il mito è anche ciò che la Sherman analizza proiettandolo nei Senza titolo, Still da film. Ma non lo fa come una consumatrice di miti, come il critico in questione; ma piuttosto come una scrittrice di miti, come Barthes - una demistificatrice di miti, una de-mistific-atrice. [...] Allora cos’è il mito? Il mito è un discorso depoliticizzato. Il mito è ideologia. Il mito è l’atto di prosciugare la storia dai segni e ricostruire questi segni come ”esempi”, in particolare, come esempi di verità universali o di leggi naturali, scegliendo cose che non hanno storia, che non sono particolarmente radicate, che sono prive di ogni terreno di contestazione. Il mito ruba il cuore del segno per trasformare ciò che è storico in qualcosa di ”naturale” - qualcosa di incontestabile, che è semplicemente ”il modo in cui stanno le cose”. [...] L’esempio più noto tra quelli utilizzati da Barthes nella sua analisi del discorso mitico è simile a quelli contenuti negli Still da film della Sherman, poiché non è composto di lettere e parole ma di fotografie e descrizioni. Si tratta della copertina della rivista Paris Match, sulla quale si mostra un soldato nero che fa il saluto francese. La fotografia - come oggetto fisico, con le sua aree di luce e ombra - è il significante, gli elementi descrittivi sono il significato. Questi due elementi si combinano nel segno: un soldato nero fa il saluto francese. Questa unione diviene poi il supporto per il contenuto mitico che non è semplicemente un messaggio sull’imperialismo francese – ”La Francia è una nazione globale; ci sono anche dei neri che la servono” - ma un messaggio sulla sua naturalezza, dal momento che il significato del primo ordine del supporto mitico è chiamato in causa come esempio per rimpinguare e illustrare il suo contenuto mitico: ”L’imperialismo non è oppressivo; è una cosa naturale, perché facciamo parte di un’unica umanità: vedi! esempi di come l’imperialismo francese funzioni bene e della fedeltà che genera possono essere trovati ovunque, in ogni luogo, per esempio, in questa fotografia dove un soldato nero fa il saluto francese”. La parte ”vedi!” del messaggio è, ovviamente, la parte interpellante. Si tratta del mito che chiama in causa il suo consumatore perché afferri il significato del primo ordine del segno - la fotografia - come significato - per poi proiettare la sua comprensione della prima semplice unità di significato verso il livello più complesso, confuso e insinuante, del contenuto mitico. Torniamo dunque alla Sherman e al fattore-Rashomon: e torniamo al critico seduto nell’auditorium oscurato della Scuola di Arti Visive, mentre guarda una serie di confronti di diapositive, convinto di qualcosa circa il loro carattere replicativo, ed è convinto di questo perché, dopo tutto, il lavoro della Sherman, egli ne è certo, ci riporta in ogni caso a un film reale che ricordiamo. Ciò che conta qui è che quel critico ha comprato l’imbonimento e non ha mai guardato sotto il coperchio. Ha scambiato il segno di primo livello col livello composto, un significante e un significato già congelati in un senso finito - l’attrice X nel film Y - e ha completato il significato mitico. In questo caso sarebbe qualcosa del tipo: Cindy Sherman è un’artista e gli artisti imitano la realtà (Verità Universale n. 1), e fanno questo attraverso la loro sensibilità personale, aggiungendo così qualcosa di loro stessi (Verità Universale n. 2). La formula che ne esce fu composta da Emile Zola. Dice: l’Arte è importante; ci dona una parte di natura vista attraverso un temperamento. La Natura, nel caso della Sherman, è di tipo tecnologico, per esempio la parte recitata nel film reale, che la Sherman interpreterà col temperamento della propria memoria e delle proprie proiezioni; esternando questo pezzo di mondo da lei osservato e sentito, la sua opera d’arte - l’esternazione di queste emozioni - sarà la sua espressione, con la quale noi, in quanto osservatori, possiamo simpatizzare. Arte = Emozione che si basa sulla natura. Questo è il mito e questo è la ragione per cui il critico si è inventato - non importa attraverso quale percorso di autoproiezione o allucinazione – ”l’originale”, il pezzo di natura, l’eroina nel suo effettivo ruolo cinematografico. Questo è quello che si chiama un consumatore di miti. Comprare l’imbonimento. Dimenticarsi di guardare sotto il coperchio" (Rosalind Krauss, ”La Stampa” 21/6/2004).