Varie, 14 giugno 2004
CAPALDO
CAPALDO Pellegrino Atripalda (Avellino) 10 luglio 1939. Dopo la laurea in economia conseguita a soli 21 anni nel 1960, si dedicò alla carriera accademica fino a diventare, nel 1970, professore ordinario dell’Università ”La Sapienza” di Roma. All’inizio degli Anni 80 fu designato dalla Segreteria di Stato del Vaticano come uno dei tre probiviri incaricati di dirimere l’intricata questione Banco Ambrosiano-Ior. Nel 1987 diventò presidente della Cassa di Risparmio di Roma e portò a compimento l’acquisizione dall’Iri del pacchetto di controllo del Banco di Santo Spirito e successivamente del Banco di Roma. Dal 1992 a capo della Banca di Roma, istituto di credito nato da questa fusione, nel dicembre del 1995 rassegnò le dimissioni perché indagato per il crac Federconsorzi (dopo una condanna a quattro anni, nel 2004 fu totalmente scagionato dalla Corte d’Appello). Con Savino Pezzotta, ha fondato «Officina 2007, movimento per una buona politica» • «[...] banchiere e professore universitario, era già stato consulente di Coldiretti. Per ridurre quelli che egli stesso definì ”i rischi della liquidazione”, il numero uno di Banca di Roma pensò alla costituzione di una nuova società, la Sgr (Società Gestione Realizzo) composta da 28 grandi creditori (fra cui la stessa banca romana), che rilevasse i beni della Fedit. Una soluzione che, disse, ”avrebbe consentito di chiudere rapidamente il concordato e vendere i beni con procedure meno farraginose di quelle classiche”. Nell’idea di Capaldo il ricavato avrebbe permesso la restituzione certa ai creditori delle somme dovute (fra il 40 e il 100 per cento), cosa che spesso non accade nei fallimenti, se non dopo anni. Il giudice Greco, al quale era stato affidato il concordato Fedit, diede il suo via libera all’operazione e valutò il patrimonio in 2.150 miliardi delle vecchie lire. Non furono d’accordo un gruppo di ex dipendenti, che fecero partire un’inchiesta del tribunale di Perugia. Oggetto dell’indagine la stima del patrimonio Fedit, che secondo l’accusa era molto più alto: 4.800 miliardi. Sgr dunque, con l’avallo di Greco, aveva ottenuto l’ok a meno della metà di quello che allora sarebbe stato il patrimonio di Federconsorzi, il potente ”braccio operativo” dei coltivatori diretti e che a partire dalla fine degli anni sessanta si era trasformato in un serbatoio di favori per partiti e sindacati. Durante la procedura vennero fatte due stime più contenute, comunque superiori a quella del tribunale fallimentare: 3.683 e 3.939 miliardi. Capaldo ha sempre difeso con forza le sue ragioni: ”Nelle mie tasche non è finita nemmeno una lira”, disse subito dopo il giudizio di primo grado. Convinto che il divario fra la valutazione della Sgr e quelle previste nel concordato fosse da attribuire ”all’enorme massa di crediti verso i Consorzi Agrari, fin da allora largamente inesigibili”. Gli argomenti di Capaldo convinsero anche la Commissione di inchiesta voluta dal Parlamento e guidata dal senatore Cirami, che ricostruì la vicenda di Federconsorzi, ”un pozzo senza fondo” per il sistema politico prima che si prosciugasse. Il piano Capaldo ”mirava a rendere più agevole e veloce il realizzo, e l’offerta, nonostante fosse tanto lontana dalle stime, ebbe larga approvazione a tutti i livelli decisionali”» (Alessandro Barbera, ”La Stampa” 13/6/2004).