Varie, 11 giugno 2004
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Mitoraj Igor
• Oederan (Germania) 26 marzo 1944. Scultore. «Celebre per i suoi volti bendati e i suoi frammenti di corpi classicheggianti [...] una vita che sembra la trama di un film: “Sono nato nel 1944 in Germania, per colpa dei tedeschi. Mia madre era polacca ed era stata deportata in un campo di concentramento. Lì incontrò mio padre, un ufficiale francese prigioniero, e così nacque questa storia d’amore. Alla fine della guerra mia madre volle tornare a casa e così passammo dai nazisti ai comunisti…”. In Polonia, Mitoraj studia pittura sotto la guida del drammaturgo Tadeusz Kantor. “Mi ha insegnato a guardarmi dentro, ma poi ho fatto esattamente il contrario di quello che faceva lui. Ho cercato di sostituire il suo teatro della morte con un teatro della vita”. Kantor, tra l’altro, lo mette al corrente di ciò che succede in Occidente, dell’avanguardia europea e americana, e gli suggerisce di partire. E così a 22 anni Mitoraj arriva a Parigi. “Volevo vedere la Gioconda, Yves Klein…”. Cos’era, un insaziabile desiderio di arte? “Sì certo, però avevo anche un’altra ossessione: ritrovare mio padre di cui si erano perse le tracce. Mi ricordo che da bambino passavo ore seduto al crocicchio di una strada aspettando che lui arrivasse. Credo che la ricerca di me stesso attraverso lo specchio del padre mi abbia spinto a fare arte. Alla fine in Francia l’ho trovato, ero proprio lì dietro la sua porta, e invece di bussare me ne sono andato. Ho fatto bene, ho fatto male, non lo so ancora”. È possibile che il sentimento di malinconica nostalgia continuamente evocato dall’opera scultorea di Mitoraj, dalle sue gigantesche figure, assorte, silenziose, classiche, mai algide e spesso ferite, derivi anche da questa esperienza dell’assenza, dell’attesa, dal bisogno di fuga. “Io guardo lontano nel tempo, all’antica Grecia, per una necessità intellettuale, perché sto meglio in quelle epoche che in questo mondo così brutto. C’è qualcosa di molto attraente nella classicità, eppure nelle mie sculture non vi sono riferimenti stilistici precisi. Le mie creature sono il frutto della nostalgia, ma anche persone dell’oggi. Mi si avvicinano senza che io le conosca prima… Il mio modo di procedere è molto particolare: magari lavoro 24 ore al giorno, poi smetto per un po’ e ricomincio, tra Pietrasanta, dove vivo dal 1979, e la Francia” [...] Molti, parlando dell’opera di Mitoraj, riesumano il termine bellezza, un po’ in controtendenza con le caratteristiche dell’arte contemporanea, indifferente al valore estetico dell’espressione visiva: “Ma la bellezza è un fatto cosmetico! Io non cerco l’estetica, voglio fare qualcosa che dia e mi dia emozioni, che aiuti a vivere in questi tempi deprimenti… Anche nell’arte: ci mostrano sesso, morte, malformazioni, tutte cose che starebbero bene in un Museo delle curiosità. E poi devono far vedere tutto, ogni singolo pelo, ogni ruga… che bisogno c’è? Io bendo i miei volti perché ho fatto mio l’insegnamento di Kantor che per evidenziare un oggetto bisogna nasconderlo. La mia scultura cerca di essere una risposta alla bruttezza, all’eccesso”. Senza puntare direttamente alla bellezza? “No, semmai aspiro a qualcosa che chiamo la luce dell’anima. I miei ‘eroi rotti’ racchiudono qualcosa di mistico. Mi avvicino all’opera in modo religioso, profondo, primordiale. Per me poi è importante il viaggio. Vado in Grecia, in Sicilia, a cercare gli dèi, a studiare… Ancora non ho afferrato il segreto della statuaria greca. Ogni anno vado a Mozia a trovare L’Auriga che per me è il capolavoro di tutti i tempi: è celato eppure si vede tutto, è apollineo, pieno di luce. Sono così invidioso… [...] Comunque, l’artista non dovrebbe mai parlare di sé! È una fatica immensa sforzarsi per definire le cose. Per me fare un’intervista è come andare dal dentista…”» (Lea Mattarella, “La Stampa” 11/6/2004).