11 giugno 2004
MENICHELLI Franco.
MENICHELLI Franco. Nato a Roma il 3 agosto 1941. Ginnasta. Oro al corpo libero alle Olimpiadi di Tokyo (1964). «Tra le cose per le quali non è fiero di essere ricordato, ci sono anche i pantaloni corti. ”Ma la ginnastica dev’essere libertà. Non avevo mai sopportato quelli lunghi, con il cavallo basso e poi sempre a tirarsi su le bretelle”. La sua carriera di rivoluzionario della ginnastica comincia nel ’52, al Trionfale, il quartiere di Roma dov’è nato, e la ginnastica è solo un’alternativa alle partitelle di calcio in mezzo alla strada, con il fratello Giampaolo che poi finirà in nazionale come ala sinistra. Nel ’58, a 17 anni non ancora compiuti, è già in azzurro. ”Venivamo da un periodo difficile. Dopo i Neri e i Guglielmetti non c’era stato ricambio. All’estero la ginnastica era uno sport organizzato, da noi ancora uno sport da circolo. Eravamo chiusi, esclusi dal pensiero d’avanguardia del resto del mondo”. A portarlo in Italia è lo svizzero Gunthard, chiamato a fare il ct federale, che cresce un gruppo di ragazzi, i marchigiani (come i fratelli Carminucci) e i romani. ”Ci insegnò come si costruisce un esercizio, a rispettare il codice internazionale. E poi a razionalizzare l’allenamento, i volumi di lavoro. Noi eravamo ancora fermi al ’andiamo in palestra e vediamo che facciamo’...”. La squadra si costruisce una sua credibilità internazionale e viene il ’60, già tempo di Olimpiadi. ”Eravamo convinti di avere raggiunto il livello degli altri, ma le medaglie comunque furono inaspettate. Contrariamente ad altre situazioni, la giuria non ci regalò mai nulla, anche perché il pubblico delle terme di Caracalla era tutto straniero. Mio padre mi diceva: ’Stavo solo tra i tedeschi’. Non sbagliammo un esercizio e alla fine ci ritrovammo terzi”. Bella prova di freddezza, per una squadra di ventenni. Poi gli individuali, il corpo libero, la sua specialità. ”Feci un esercizio buono, che non aveva ancora l’originalità. Forse i miei salti erano con un’elevazione maggiore, ma davvero non avevo qualcosa in più. Lo aveva Giovanni Carminucci alle parallele, ma perse l’oro per 20 centesimi. Davvero le giurie non vollero aiutarci”. La rivoluzione non è ancora arrivata. ”A Roma ce l’avevo ancora dentro. Ma il mio pensiero si vede finalmente a Tokyo ne l’64”. E lì appare un ginnasta che non si è mai visto prima. ”Era la mia idea di trasformazione tecnica, estetica, interpretativa. Cercavo di uscire dai canoni, e non per i pantaloni corti, ma per la composizione degli esercizi”. Lancia un messaggio che rimane negli anni e che a lungo sarà copiato. ”I principi erano: non stare mai fermo, toccare il suolo il meno possibile, essere sempre in volo, trasmettere leggerezza, esprimere libertà”. Fu un trionfo, che seguiva il quinto posto nel concorso generale, a pochi centesimi dal secondo, a causa di un cattivo esercizio al volteggio. ”Ma se si calcolano solo gli esercizi liberi io fui il primo a Tokyo. Ho sempre odiato gli obbligatori”. Viene anche il bronzo nelle parallele. ”Feci il miglior esercizio della mia vita. E anche negli altri attrezzi ero anticonformista: lì entravo di traverso, un approccio molto difficile che nessuno ha mai valutato bene”. Agli anelli invece fu argento. ”Successe che ancora una volta doveva vincere un giapponese, solo che Endo, oro nel concorso generale, aveva sbagliato e allora mandarono avanti Haytta. Anche lì c’era una rivoluzione da fare, quella del lavoro a braccia tese. C’era solo un accenno, ma non era stato ancora pienamente pensato. Noi non avevamo dietro gli scienziati come Unione Sovietica e Giappone. Solo la palestra e i nostri pensieri. Da loro i biomeccanici studiavano i movimenti a tavolino e offrivano poi agli atleti le metodologie”. La rivoluzione degli anelli è pronta per il ’68, quelli delle altre squadre sono venuti a filmare i suoi allenamenti con i nuovi esercizi. ”A Città del Messico la mia specialità sarebbero stata quella più che il corpo libero. E dopo avrei lasciato, avevo ormai 27 anni”. Ma durante un esercizio degli odiati obbligatori ci fu la rottura del tendine di Achille. ”Avevo un’infiammazione al tendine e non avrei dovuto gareggiare. Avrei smesso lì, con amarezza, ma serenamente. Però tutti mi dicevano: ma che non fai l’Olimpiade? E poi la squadra era in declino e alla fine accettai di gareggiare”. In Italia arrivano le immagini drammatiche dell’infortunio, Menichelli sul tappeto, un manifesto dell’atleta dolente e sconfitto. ”A me è dispiaciuto dare dispiacere agli altri e poi c’è stata una grande dimostrazione d’affetto del pubblico. Ma dopo quelle immagini dell’infortunio mi hanno dato fastidio: perché passavo alla storia non per quello che avevo fatto prima ma per essere stato uno che si è infortunato a un´Olimpiade. Quell’infortunio non mi ha stroncato la carriera: di più non potevo fare e volevo già smettere”» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica: 11/6/2004).