Marzia Mazzonetto, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 5 giugno 2004
L’ictus si può finalmente curare, ma solo se si arriva in tempo. Finora c’era ben poco da fare: nella maggior parte dei casi i pazienti venivano ricoverati in reparti generici, e semplicemente tenuti sotto osservazione
L’ictus si può finalmente curare, ma solo se si arriva in tempo. Finora c’era ben poco da fare: nella maggior parte dei casi i pazienti venivano ricoverati in reparti generici, e semplicemente tenuti sotto osservazione. Oggi la nascita delle prime ”stroke unit” (unità ictus, il corrispondente dell’unità coronarica per i malati di infarto) garantisce di poter intervenire in concreto per fare in modo che il paziente non riporti conseguenze gravi. L’ictus è l’equivalente dell’infarto per il cervello. La causa è quasi sempre un coagulo sanguigno o un trombo che, ostruendo le vene, impedisce improvvisamente l’afflusso di sangue. Il blocco si verifica in pochi minuti e può durare per almeno 24 ore. Per quasi il 20 per cento dei casi invece il problema è dato da un’emorragia, ovvero la fuoriuscita di sangue nel cervello a causa di un vaso rotto. Le cellule che rimangono senza ossigeno e senza i nutrienti del sangue, anche solo per pochi minuti, subiscono spesso danni irreparabili. A seconda della zona del cervello colpita, il risultato può essere la perdita di alcune funzioni, tra cui soprattutto la parola, la vista, le capacità motorie e la memoria. Non cambiano invece i sintomi, che possono essere difficili da riconoscere. I più comuni sono disturbi nel movimento, che spesso coinvolgono solo metà del corpo, difficoltà a parlare e abbassamento della vista, mal di testa, vertigini e vomito. L’ictus colpisce ogni anno quasi sei milioni di persone. Si tratta della seconda causa di morte al mondo, superata solo dalle malattie cardiovascolari. I numeri continuano a crescere, favoriti anche dall’innalzamento dell’età media della popolazione. In Italia i nuovi casi ogni anno sono più di 186 mila e l’Istat prevede che raggiungeranno i 206 mila entro il 2008. Di questi, 73 mila sono i decessi immediati, mentre l’80 per cento dei sopravvissuti a sei mesi di distanza dall’attacco necessita ancora di assistenza. L’ictus è infatti una delle principali cause di disabilità in tutto il mondo. «Il problema è proprio capire quando sarebbe utile non trascurare un improvviso indebolimento e correre all’ospedale». A puntare l’attenzione sull’importanza dei primi sintomi è Giuseppe D’Alessandro, fondatore di Alice, l’Associazione per la lotta all’ictus cerebrale. «Durante la quinta giornata nazionale dell’ictus» racconta D’Alessandro «che il 9 maggio ha coinvolto le piazze di molte città italiane, abbiamo nuovamente assistito allo stesso fenomeno degli scorsi anni. La gente ascolta stupita quelli che potrebbero essere i segnali di un ictus cerebrale, e le richieste di sottoporsi allo screening generico che viene offerto durante la manifestazione superano sempre di gran lunga la disponibilità». per questo che l’associazione punta molto sul materiale informativo. «L’iniziativa» prosegue D’Alessandro «vuole servire da stimolo per convincere le persone a prestare più attenzione a questo tipo di malattie, e in un certo senso a essere più preparate. In Italia e nel mondo si potrebbero evitare moltissimi casi di ictus a partire dalla prevenzione: il vero problema, però, è che molte persone non solo ignorano di essere a rischio, ma spesso, dopo essersi rivolte al medico di base per gli accertamenti, non vanno oltre nella terapia preventiva». Il caso più comune è quello dell’ipertensione, di cui soffre il 30 per cento degli adulti italiani. Una cura efficace potrebbe ridurre il rischio di ictus fino al 70 per cento, ma la procedura è spesso lunga, impegnativa e quindi scoraggiante. Per molti anni l’ictus ha fatto parte delle patologie per le quali non era possibile alcun intervento. Dalla scorsa estate anche in Italia è stato approvato un medicinale (t-PA, ovvero un attivatore del plasminogeno) che, se somministrato entro le prime tre ore dall’insorgenza dei sintomi, riesce a spezzare il blocco che ha ostruito l’arteria, consentendo al sangue di tornare in circolo. Non solo, sempre più efficaci sono anche le tecniche di imaging, che permettono di vedere quale parte del cervello è stata colpita. Tac, doppler e risonanza magnetica forniscono un quadro completo in poco meno di mezz’ora. E in alcuni centri è addirittura possibile raggiungere direttamente la zona interessata dall’ostruzione con un minuscolo catetere, che muovendosi attraverso le vene può arrivare ad agire direttamente sulle placche. Purtroppo, però, gli ospedali in grado di mettere in pratica queste tecnologie sono ancora pochi. « importante avere tutte queste possibilità di cura, ma senza le adeguate Unità di Trattamento Neurovascolare (Utn) rimarranno senza applicazione» osserva D’Alessandro. «Il loro ruolo è fondamentale non solo per ridurre la mortalità di questa malattia, ma anche la conseguente invalidità. un dato importante se si considera che il 10 per cento della spesa sanitaria italiana è rivolto proprio all’assistenza dei disabili che hanno subito un ictus cerebrale. Purtroppo in Italia sono presenti solo 50 delle 500 unità ictus che sarebbero necessarie per una copertura adeguata del Paese (una ogni 100 mila abitanti), e come sempre si assiste a un forte divario tra Nord e Sud». E, anche dove sono disponibili centri specializzati, si calcola che solo un paziente su cinque arriva in tempo per evitare almeno una parte dei danni irreparabili dell’ictus. La tempestività dell’intervento è l’unico elemento che può dare importanza a qualsiasi tipo di cura. A sostenerlo è anche Giancarlo Comi, direttore della Clinica Neurologica dell’Ospedale San Raffaele di Milano, una tra le più attrezzate in Italia. «Le stroke unit sono gli unici luoghi dove possiamo sperare di salvare almeno le cellule del cervello che si trovano a breve distanza dalla zona colpita» spiega Comi «che spesso possono arrivare a sopravvivere fino a sei ore dall’interruzione del flusso sanguigno». E mentre il sistema sanitario italiano si muove per attrezzare gli ospedali con le strutture adeguate, non si ferma l’attività di ricerca. «Uno dei settori di maggiore interesse» prosegue Comi «riguarda l’analisi di come si viene a formare la placca che, una volta attivata, va a ostruire le arterie. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di un processo infiammatorio, ma è ancora tutto da provare. Quello che è certo è che saperne di più su questo tipo di meccanismo ci permetterà di sviluppare nuovi strumenti per la prevenzione». Allo studio sono anche possibili farmaci che concedano un margine di intervento superiore alle tre ore attuali. Senza dimenticare le strategie che permettono di proteggere il tessuto ischemico (la parte di cervello interessata dal blocco sanguigno) durante l’ictus. Qui le idee vanno dall’abbassamento della temperatura corporea per mezzo di farmaci antipiretici, in modo da ridurre l’attività cerebrale, a sostanze che rallentino il processo di degenerazione delle cellule colpite. Per entrambe le tecniche sarà necessaria ancora una lunga sperimentazione, per eliminare i numerosi effetti collaterali che si sono presentati finora. Marzia Mazzonetto