Nicola Nosengo, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 5 giugno 2004
A Trieste, un gruppo di ricercatori sta sperimentando un dispositivo davvero eccezionale. Si tratta di una pompa meccanica con ingranaggi, serbatoio e valvole, dotata di un motore magnetico: una specie di dinamo della bicicletta al contrario, che usa il campo magnetico creato da una differenza di potenziale elettrico, per provocare un movimento rotatorio, che fa muovere degli ingranaggi all’interno del serbatoio
A Trieste, un gruppo di ricercatori sta sperimentando un dispositivo davvero eccezionale. Si tratta di una pompa meccanica con ingranaggi, serbatoio e valvole, dotata di un motore magnetico: una specie di dinamo della bicicletta al contrario, che usa il campo magnetico creato da una differenza di potenziale elettrico, per provocare un movimento rotatorio, che fa muovere degli ingranaggi all’interno del serbatoio. A loro volta gli ingranaggi comprimono un fluido e lo spingono fuori dal serbatoio. Roba vecchia, dirà chi se ne intende un po’ di meccanica: la pompa dell’olio di qualunque motore di automobile è fatta così! Già, ma la pompa di cui stiamo parlando è grande poche centinaia di micron, o millesimi di millimetro, e i suoi singoli componenti sono dell’ordine dei nanometri: milionesimi di millimetro. E non è nata per contenere olio lubrificante, ma farmaci. Questa micropompa è attualmente in fase di sperimentazione al Laboratorio nazionale tecnologie avanzate e nanoscienze (Tasc) dell’Istituto Nazionale di fisica della materia di Trieste, e fa parte di una serie di progetti di applicazione delle nanotecnologie alla drug delivery (cioè il rilascio intelligente di farmaci all’interno dell’organismo). Grazie a un dispositivo simile a questo, i ricercatori che hanno sviluppato questa micropompa, guidati dal fisico Enzo Di Fabrizio, sperano che sarà un giorno possibile far arrivare un farmaco esattamente nel punto dell’organismo in cui serve e rilasciarne solo la quantità che serve precisamente al momento giusto. Esattamente il contrario di quanto succede attualmente. Quando assumiamo un farmaco per via orale o con un’iniezione, infatti, lo facciamo in modo estremamente inefficiente. Prima di tutto perché il farmaco va in giro per tutto l’organismo, portato dal sangue, quando invece nella maggior parte dei casi la sua azione è necessaria solo in un punto preciso. In questo modo non raggiunge solo le cellule malate, ma anche quelle sane. Da questo derivano gli effetti collaterali, che magari possono essere trascurabili per i farmaci più ordinari ma devastanti nel caso, per esempio, della chemioterapia contro i tumori. Inoltre, assumiamo un’alta quantità di farmaco, che poi progressivamente decade nell’organismo, fino alla pillola o all’iniezione successiva. Così, ad esempio, la dose di farmaco che abbiamo nell’organismo è 100 subito dopo l’iniezione e 0 mezza giornata dopo, quando in realtà avremmo bisogno di averne 50 per tutto il giorno. Qui entrano in gioco le nanotecnologie. Grazie ai sistemi di drug delivery attualmente allo studio, sarà possibile ”colpire” con il farmaco solo l’organo malato, addirittura solo le cellule malate, e avere sempre l’esatta dose di farmaco necessaria, senza sbalzi. Come? Per esempio, la micropompa dei fisici triestini potrebbe essere caricata con molecole di farmaco e impiantata sottopelle a un paziente. Dall’esterno, avvicinando un magnete che provoca il movimento dell’ingranaggio, si potrebbe causare il rilascio della quantità voluta di farmaco e distribuirlo nel tempo. La micropompa tra l’altro ha attirato anche l’interesse di una nota casa produttrice di apparecchi acustici, che ne sta finanziando la sperimentazione per un altro scopo. Essa potrebbe infatti essere usata per modificare la pressione dell’orecchio interno, risolvendo patologie che provocano sordità e perdita dell’equilibrio. Ma le possibilità di utilizzo di queste ”nanomacchine” o Nems (Nano electro mechanical systems) in campo medico sono molte, e la ricerca italiana è particolarmente vivace in questo settore. Ne è una prova anche la realizzazione di ”Nanospider”, un sistema di molecole con un diametro di 3,5 nanometri, mille volte più piccolo di una cellula umana, capace di compiere operazioni in modo controllato. La Nanospider è stata realizzata dai ricercatori del Dipartimento di chimica ”G. Ciamician” dell’Università di Bologna insieme a colleghi dell’Università di Los Angeles. dotata di ”zampette” con cui può afferrare le molecole per poi, grazie a una piattaforma che si muove come un ascensore, trasportarle dall’alto verso il basso e viceversa, e potrà essere sfruttata in futuro per trasportare le molecole medicinali e aiutarle a superare la membrana cellulare. Tornando invece a Trieste, tra i sistemi sperimentati dal gruppo di Di Fabrizio, che lavora tra l’altro in collaborazione con la casa farmaceutica Bracco, c’è anche un ”pozzetto”, con una capienza di pochi pico/nanolitri (è un’unità di volume che nasce dalla divisione di un litro per una cifra in cui l’uno è seguito dalla bellezza di 21 zeri). Il coperchio del pozzetto, delle dimensioni di 50 nanometri, si dissolve quando si trova in un ambiente con un determinato grado di acidità (Ph), quello caratteristico delle cellule malate, lasciando uscire il farmaco contenuto all’interno. «Naturalmente occorre sommare molti di questi microdosaggi per somministrare una quantità di farmaco sufficiente» spiega Di Fabrizio. Un’altra possibilità è quella del ”silicio nanoporoso”. «Stiamo provando a usare cilindretti di silicio sulla cui superficie si trovano pori delle dimensioni di pochi nanometri» spiega ancora il ricercatore. Prosegue Di Fabrizio: «Questi cilindretti sono come delle spugne, vengono impregnati di farmaco e lo rilasciano gradualmente. In più sono biodegradabili, e si dissolvono una volta esaurita la loro funzione». A Trieste lavorano all’ipotesi di applicare questi materiali agli stent (le protesi coronariche utilizzate negli interventi di angioplastica), impregnandoli prima di un farmaco antirigetto. In questo modo si evita che queste protesi vengano ricoperte da uno strato di tessuto cicatriziale e diventino inutili in breve tempo. I nanofarmaci potranno anche raggiungere organi su cui è molto difficile agire con i farmaci più tradizionali. L’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma, per esempio, sta testando in collaborazione con la Pfizer, uno dei più grandi colossi farmaceutici del mondo, l’utilizzo di nanoparticelle per il trasporto di farmaci verso il sistema nervoso. «I normali farmaci hanno dei grossi problemi nel superare la barriera emato-encefalica, quel sistema cellulare che sbarra la strada verso le cellule cerebrali alle molecole potenzialmente dannose presenti nel sangue» spiega Antonella Curulli, responsabile della linea di ricerca sulle applicazione biomediche dell’Istituto. La Curulli precisa poi: «Se invece attacchiamo una microdose di farmaco a una nanoparticella lipidica, che è in grado di superare quella barriera, possiamo farlo arrivare a destinazione». comunque nella cura dei tumori che ci si aspetta di più dalle nanotecnologie. Un esempio, questa volta però proveniente dall’estero, è quello degli esperimenti condotti in Canada dalla casa farmaceutica C Sixty. I suoi ricercatori stanno provando a usare nanotubi o fullereni (particolari composti di atomi di carbonio, disposti in forma sferica come un pallone da calcio o arrotolati a formare cannule) ”decorandoli” con molecole di farmaci chemioterapici. A questi si aggiunge un anticorpo che fa da guida: quando riconosce le tracce chimiche della cellula malata, e si lega a essa, innesca una reazione che porta al rilascio del farmaco. Se l’utilizzo contro i tumori è ancora allo studio, la casa ha già stretto accordi con la multinazionale Merck & Co. per lo sviluppo di fullereni equipaggiati di farmaci antiossidanti, da usare contro malattie cronico-degenerative come aterosclerosi e altre malattie cardiovascolari. Un chiarimento però diventa necessario: per tutte queste avveniristiche tecnologie serviranno ancora molti anni prima che si arrivi a test clinici sull’organismo umano. Per non parlare poi di applicazioni su vasta scala negli ospedali. Rimangono molti problemi, soprattutto legati alla biocompatibilità, cioè la tollerabilità dei materiali usati per il corpo umano, e inoltre pilotare questi meccanismi verso il loro bersaglio è impresa più facile a dirsi che a farsi. Ma che possano aprire un nuovo orizzonte, per quanto lontano, alla medicina sembra ormai veramente fuori di dubbio. Nicola Nosengo