Arianna Dagnino, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 5 giugno 2004
«Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare»: si deve a un personaggio sarcasticamente aristocratico come Oscar Wilde questo motto in elogio alla pigrizia, quello stato umano padre di tutti i vizi o di tutte le virtù, a seconda dei casi e delle diverse opinioni in materia
«Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare»: si deve a un personaggio sarcasticamente aristocratico come Oscar Wilde questo motto in elogio alla pigrizia, quello stato umano padre di tutti i vizi o di tutte le virtù, a seconda dei casi e delle diverse opinioni in materia. Se per la dottrina cristiana la pigrizia – nella sua accezione più bieca, l’accidia – è uno dei sette peccati capitali, per gli antichi greci, per i filosofi e i letterati di tutti i tempi la pigrizia è – nella sua versione più nobile, l’ozio – lo stato cui aspirare per nutrire e rendere creativa la propria mente. «Nella lingua greca esiste il caso curioso di uno stesso vocabolo che sta sia per ”pigro” che per ”agile e veloce”» spiega Paolo Aldo Rossi, direttore scientifico di ”Anthropos & Iatria” «Il termine è argòs (argo): ciò può apparire, a prima vista, semanticamente contraddittorio, ossia un ”ignavo efficiente”». Argo è l’insonne e instancabile pastore dai cento occhi, ed è anche il cane di Ulisse, che Omero chiama ”il veloce”. Nello stesso tempo argòs è il termine con cui Omero descrive un animale ”grasso e ben pasciuto”, che pascola ”pigramente”. «E a ben vedere, solo un animale grasso e ben pasciuto si può permettere di oziare» spiega Rossi «diversamente, se fosse macilento e affamato gli toccherebbe darsi da fare per trovare il cibo». Infine Platone, nelle sue ”Leggi”, usa il termine argòs nel significato di ”immune da fatica” o ”esentato dall’onere del lavoro”, cosa che alla fine coincide con l’essere liberi da un grave travaglio da ”schiavi”. «Non mi sembra un uomo libero quello che non ozia di tanto in tanto» sentenziò qualche secolo dopo Marco Tullio Cicerone (106 a.C. - 43 a.C.). Una frase che dovette riecheggiare con eretica potenza persino in un socialista come Paul Lafargue (noto come il genero di Karl Marx più ancora che per i suoi pamphlet propagandistici), il quale nel suo scritto più citato, ”Il diritto alla pigrizia”, notava come le classi operaie fossero «possedute da una strana pazzia. Questa pazzia porta con sé delle miserie individuali e sociali che torturano la triste umanità da due secoli a questa parte. Questa pazzia è l’amore per il lavoro». Un lavoro causa per Lafargue di degenerazione intellettuale e fisica: «Se la classe operaia si sollevasse con la sua forza terribile, non per esigere il diritto al lavoro che è soltanto il diritto alla miseria, ma per forgiare una legge di bronzo che proibisse a chiunque di lavorare più di tre ore al giorno, la Terra, la vecchia Terra, fremente di gioia, sentirebbe nascere in sé come un nuovo universo». Cosa ritenuta fattibile già da Bertrand Russell, che nel suo ”Elogio della pigrizia”, redatto nel 1932, scriveva: «La tecnica moderna ha reso possibile che lo svago, entro certi limiti, non sia la prerogativa di poche classi privilegiate ma un diritto imparzialmente condiviso da tutta la comunità: la morale del lavoro è la morale degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavitù». Eschilo arriva a usare la parola pigrizia nel significato di ”riluttante” o ”restio”, il che non è sinonimo di passiva pigrizia, bensì di attiva resistenza a fare cose inutili, noiose o troppo dispendiose rispetto al risultato da ottenere. Ma il jucundum nihil agere (il dolce far niente) di Plinio il Giovane, e che lo stesso Virgilio riteneva essere un dono divino, doveva essere inteso come un modo per coniugare l’ozio con le lettere e le arti, unica condizione per cui ”l’insopportabile fatica di non far niente” diviene la condizione fondamentale per l’esercizio delle superiori facoltà della mente. è qui che l’inerzia si nobilita, l’inattività acquisisce un senso profondo, l’inoperosità fa da sfondo alla più alta delle opere, quella del pensiero e della ragione. «Un uomo non è un pigro, se è assorto nei propri pensieri; esistono un lavoro visibile e uno invisibile» scriveva anche Victor Hugo. Una concezione nobile dello stato di relax che ai giorni nostri è stata recuperata dal sociologo Domenico De Masi nel suo saggio sull’”Ozio creativo” (Rizzoli), distinguendolo dalla pigrizia: «La parola pigrizia a me suona come assenza di attenzione, inerzia e non può essere creativa» spiega De Masi «al contrario dell’ozio, che intendo come un mix di lavoro, studio e gioco». L’ozio creativo è dunque il lavorio della mente, è il nutrimento dell’ideazione, che avviene anche quando stiamo fermi. In questo senso, oziare significa non pensare con regole fisse, non avere l’assillo del cronometro. Secondo il sociologo, se esiste un ozio alienante, che ci fa annegare nella noia e nella sottostima di noi stessi, esiste anche un ozio che arricchisce, che si nutre di stimoli. «Ci sono manager» constata tristemente De Masi «che non sono mai andati in piazza di Spagna alle dieci del mattino, che vivono il mondo esterno solo nella sua dimensione domenicale, non sono mai andati al cinema in un giorno feriale alle tre del pomeriggio. Vivono in una specie di caserma psichica e sono infelici perché sono limitati. Chiusi nella loro boccia aziendale, finiscono per non avere idee». A riabilitare la pigrizia nella sua accezione più nobile ci si è messo anche Michele Serra, che si considera un ”ozioso represso”: «Sull’ozio ho capito qualcosina dalle mie sparute letture classiche (naturalmente Orazio, ma anche tutti quei poeti che, fingendosi in dissidio con il potere, si facevano esiliare pur di languire in pace lontano dal dibattito e vicino alle fidanzate), ma ho capito quasi tutto quando il mio amico Rajendra, apicultore arancione, mi fece riflettere su questo fatto: che alla parola ”meditare” corrisponde, per gli occidentali, l’atto di chi si mette a riflettere su questo e quello, spremendosi il cervello come un povero vecchio limone, mentre per gli orientali vuol dire svuotarsi di tutti i pensieri, e cioè il contrario». Partendo da queste premesse Serra non poteva che lodare l’iniziativa condotta dallo psichiatra Paolo Crepet e dai teatranti dell’Archivolto, che hanno recentemente organizzato corsi di ”dolce far niente” nei licei genovesi. Corsi che lo stesso Serra vorrebbe dedicare alla memoria a Fabrizio De André. La critica all’iperattivismo, o meglio al principio della Ragion Efficiente («Molti sono indaffarati a non fare nulla» ricordava Fedro), affonda le radici nell’antichità e arriva fino ai giorni nostri. Passando per le parole dello scrittore inglese John Boynton Priestley, che nel suo pamphlet ”Sul non far niente”, se la prese con il culto dell’efficientismo: «Se, per esempio, nel luglio del 1914, quando faceva un tempo splendido per oziare, tutti, imperatori, re, arciduchi, statisti, generali, giornalisti, fossero stati colti dal desiderio di non far niente, allora saremmo stati molto meglio di come siamo adesso. Ma no, la dottrina della vita attiva continuava a dominare incontrastata; non c’era da perder tempo; qualcosa andava fatto. E, come sappiamo, qualcosa venne fatto». Eppure c’è anche chi vede, al contrario, nel culto della Ragion Pigra un mito da sfatare. Fra questi si annovera lo psicologo comportamentale americano Mel Levine, autore del saggio ”The Myth of Laziness” (Il mito della pigrizia), il quale dichiara: «La pigrizia non è un tratto innato. Nasciamo tutti con una spinta a produrre, a essere e sentirci utili ed efficaci. I nostri maggiori successi e quelli dei nostri figli vengono sperimentati e dimostrati attraverso l’ottenimento di risultati compiuti dalle nostre menti o dalle nostre mani. Dall’infanzia e per tutta la nostra vita adulta vogliamo mostrare cosa siamo in grado di fare. Acquistiamo energie e ci sentiamo bene ogni volta che una nostra azione personale conquista il riconoscimento, l’accettazione e il rispetto dei nostri amici, familiari, capi (o insegnanti) e, soprattutto, dei nostri sé autocritici. Per sentirsi soddisfatti, nella vita, poter essere orgogliosi del proprio lavoro aiuta enormemente». L’etica protestante della produttività come momento di soddisfazione personale espressa dal dottor Levine è lontana anni luce dal modo di intendere la vita di quello che si è rivelato essere il più grande pigro della letteratura mondiale, Oblomov (al punto che oblomovismo è diventato sinonimo di accidia), il russo di nobile casata protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Goncharov, e da cui il regista Nikita Mikhalkov trasse nel 1980 una mirabile pellicola. Giacendo su un sofà, segregato nella sua abulia, sdegnoso dei principi di produttività borghesi, fiaccato dalla sua incapacità di agire e immerso nelle sue riflessioni filosofiche sul senso da dare alla vita, Oblomov si lascia scappare la vita dalle mani, inclusa la donna amata. La storia del buono e pigro Oblomov è divenuta simbolo di un aspetto dello spirito russo: quella riluttanza ad accettare i ”tempi” della realtà, che il filosofo Lin Yutang condensò nella massima: «Se riesci a passare un pomeriggio assolutamente inutile in modo assolutamente inutile, hai imparato a vivere». Forse Oblomov soffriva di quella disfunzione neuroevolutiva (che può manifestarsi con problemi di coordinamento muscolare, difficoltà nel tradurre i pensieri in parole, carenza di energia mentale, lacune nei processi di memorizzazione o di organizzazione) ingiustamente criticata come una forma di pigrizia – di cui parla il dottor Levine riferendosi a «coloro che continuano a ripromettersi di fare le cose ma raramente riescono poi a concludere alcunché, leggono meglio di quanto riescano a scrivere, sanno interpretare le informazioni ma non riescono a mettere a frutto quanto hanno imparato. Sembrano manifestare una disabilità nei confronti del lavoro; sono incapaci di predisporre la loro mente a un’attività produttiva. Quello che acquisiscono eccede quello che riescono poi a produrre, deludendo sè stessi prima ancora che gli altri. E la gente liquida la cosa affermando che non esprimono il loro potenziale». Sia come sia, il dolce far niente è la condizione cui l’umanità aspira da sempre, anche se per raggiungerlo deve sudare sette camicie. In fondo aveva ragione Jean-Jacques Rousseau quando sosteneva che «tutti lavoriamo per procurarci il riposo: è quindi la pigrizia che ci rende laboriosi». Arianna Dagnino