Mario Lenzi, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 5 giugno 2004
Ogni giorno, oltre 100 milioni di cinesi accendono i computer e spalancano le loro finestre virtuali sull’Occidente
Ogni giorno, oltre 100 milioni di cinesi accendono i computer e spalancano le loro finestre virtuali sull’Occidente. Solo nel 2003 sono stati aperti in Cina 600 mila nuovi siti Web: il 60 per cento in più dell’anno precedente. E c’è chi vede nel mastodontico Paese uno dei futuri protagonisti della scena economica mondiale. Da qui a dieci anni al massimo: parola della Goldman Sachs di New York, banca d’investimenti dal 1869 e non certo ultima arrivata. La Cina, dunque, torna ad aprirsi all’Occidente, come quasi duemila anni fa, quando l’imperatore Wu della dinastia Han, nel 114 a.C. inaugurò il tratto cinese della Via della Seta, che conduceva fino al Mediterraneo, avviando così un fiorente commercio tra due mondi fino ad allora separati. Un solco di oltre 8.000 km, su cui transiteranno migliaia di uomini, bestie e mercanzie. Nel medesimo periodo, l’imperatore Traiano espande il dominio di Roma verso i suoi massimi confini orientali. I due popoli non sono mai stati così vicini, ma le sconfinate distese e l’incognita di genti sconosciute sono deterrenti micidiali. «La Cina è un Paese immenso, dove vivono quasi un miliardo e trecento milioni di persone» afferma Maria Weber, docente di Relazioni internazionali all’Università Bocconi di Milano e senior research fellow all’Ispi di Milano (Istituto per gli studi di politica internazionale), tra i più noti esperti europei del settore. «Il popolo cinese è molto orgoglioso della sua cultura e della continuità della propria civiltà. L’isolamento secolare dell’Impero di Mezzo e l’omogeneità razziale dei suoi abitanti hanno contribuito a far sorgere e a mantenere nel tempo un diffuso senso d’identità nazionale. «La continuità culturale è, a sua volta, il prodotto di due altre costanti: quella spaziale, cioè il permanere nei secoli degli stessi confini geografici, e quella razziale (il 92,6 per cento dei cinesi appartiene a un’unica etnia, la Han). Dal 221 a.C., hanno condiviso linguaggio, moneta e unità di misura. Un forte elemento unificante di questa civiltà è la lingua, il cinese mandarino, parlato con un’infinità di diversi accenti e dialetti, ma scritto da tutti in modo uniforme». Un pianeta, quindi, con cui l’Occidente ha dovuto entrare in contatto e fare i conti. Toccherà alla famiglia Polo, veneziana e malata di commercio, caricarsi di masserizie e partire alla ventura per giungere alla fonte. Il proposito è pratico e molto italico: saltare ogni intermediario e rifornirsi di merci preziose alla sorgente. Quando nel 1275 arriva a Cambaluc, nella zona occupata dall’odierna Pechino, Marco Polo ha soltanto 21 anni. Al seguito del padre Niccolò e dello zio Matteo, ha percorso via terra una distanza incommensurabile. Nel frattempo, anche in Cina le cose sono mutate. Dominano i mongoli di Gengis Khan, che con Kubilai Khan (nipote di Gengis e governatore della Cina dal 1251) hanno fondato una loro dinastia, chiamandola Yuan. E le meraviglie non mancano, carbon fossile incluso. «Egli è vero che per tutta la provincia del Catai àe una maniera di pietre nere, che·ssi cavano de le montagne come vena, che ardono come bucce, e tegnono più lo fuoco che·nno fanno le legna» detterà Marco a Rustichello da Pisa, mentre nel 1298 si trovano entrambi prigionieri nelle carceri genovesi, imbastendo così quel diario poi noto come ”Il Milione”. Anche se il libro di Marco Polo diviene bussola di molti viaggiatori, la Cina resta lontana. Nel 1583, più che il commercio – almeno questa volta – poté la fede. Padre Matteo Ricci (1552-1610), missionario gesuita, entra nella Città Proibita di Pechino. Mai, nella sua lunga storia, la dinastia Ming (1368-1644) aveva permesso a uno straniero di risiedere nel proprio palazzo. Qui il sacerdote scrive, insegna scienze occidentali (matematica e astronomia) e fa discreta opera di apostolato cristiano. Non sarà il solo: nel 1766, proprio a Pechino, morirà un suo confratello, padre Giuseppe Castiglione (1688-1766), che alla corte dell’imperatore Qian Long (1688-1768) acquisterà fama di pittore e architetto, con il nome cinese di Lang Shih-ning. E la sua storia non è acqua: proprio quest’anno, la televisione cinese manderà in onda un serial dedicato al gesuita, interpretato dall’attore canadese (ma cinese d’adozione) Mark Rowswell. L’Ottocento è foriero di venti burrascosi. Se nei secoli precedenti l’interesse per la Cina era vivo e, tutto sommato, abbastanza positivo – complice anche il pensiero cosmopolita dei filosofi illuministi – in questi anni i rapporti tra Est e Ovest si fanno più tesi. «Due sono i sentimenti che prevalgono in questo periodo» dichiara Valdo Ferretti, docente di Storia della Cina contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. «Da una parte abbiamo l’idea del ”mercato cinese”, ossia dei vantaggi che si sarebbero ottenuti se l’isolamento dell’Impero fosse finito. Dall’altra, in particolare nella seconda metà e alla fine del secolo, si ha una visione prevalentemente negativa, associata all’arretratezza culturale della Cina, portatrice di una civiltà antica ma ormai in decadenza, governata in modo inefficiente e arbitrario, piena di pulsioni xenofobe, guidata da una classe dirigente conservatrice e contraria ad aprirsi al Cristianesimo. «Insomma, gli aspetti più deteriori della società cinese sono sottolineati più dei positivi». Atteggiamenti contraddittori che caratterizzano anche l’altra faccia del mondo. «In Cina, gli europei sono visti come dei barbari violenti e invasori portatori di una cultura meno raffinata e inferiore, che è meglio comunque evitare» aggiunge Ferretti. «Tuttavia, la conoscenza culturale dell’Occidente fa nascere anche molto interesse o ammirazione, in particolare per la scienza e la tecnica. E il discorso s’estende anche alle istituzioni politiche, da parte dei riformatori di fine secolo». Dai contrasti alle insofferenze (spesso giustificate) il passo è breve. Nel 1839, il mandarino Lin Zexu (fiero nemico dell’uso di droga in Cina) distrugge le casse d’oppio importate dagli inglesi. L’Inghilterra, a sua volta, s’arma alla volta del Celeste Impero, innescando quella ”Guerra dell’Oppio” che terminerà soltanto nel 1842, con il Trattato di Nanchino. Tra concessioni territoriali e altre rivolte (famosa quella dei Boxer, nel 1899, con gli stranieri assediati per 50 giorni nel quartiere delle legazioni a Pechino), tra una rivoluzione comunista che porrà fine all’Impero (1911) e un lento e travagliato tiramolla con l’Occidente, non basterebbe un libro per giungere ai giorni nostri. Impossibile riassumere il susseguirsi di disordini e di lotte intestine che seguirono l’abdicazione di Pu Yi – proprio quell’ultimo imperatore che il regista Bernardo Bertolucci immortalò nel suo celebre film – fino al 1° ottobre 1949, quando Mao Zedong annunciò la nascita della Repubblica dalla piazza Tian’anmen di Pechino. Basti pensare alle vicende del Partito Nazionalista Cinese (o Zhongguo Guomindang) del generale Jiang Jieshi (Chiang Kai-Shek), che dal 1926 al ’27 unificò l’intera nazione e resse i destini del popolo, fino alla sua sconfitta nella Guerra di Liberazione contro il Partito di Mao (1946-1949) e la fuga dei suoi esponenti principali a Taiwan. Uno sguardo spassionato su quegli anni di fuoco, su una Lunga Marcia maoista (1934-35) che non ebbe rosse soltanto le bandiere (dei circa 100 mila partiti dal sud della Cina, soltanto 7.000 giunsero incolumi fino al nord, dopo un viaggio di 12.000 km), potrebbe far comprendere – almeno in parte – la rigida chiusura di un popolo stanco e ferito. Sia come sia, figura chiave di questo nuovo stato di cose fu proprio Mao Zedong, presidente del Partito dal 1939 fino alla sua morte, nel 1976. Il nuovo governo fu riconosciuto dapprima soltanto dai Paesi socialisti e si legò all’Urss con un accordo difensivo trentennale. Gli Usa, invece, lo screditarono immediatamente, impedendone l’ammissione all’Onu nel 1950. Il ping-pong tra le due grandi nazioni era cominciato: i primi anni della Repubblica furono caratterizzati da una politica estera d’appoggio ai movimenti antiamericani (Corea 1950-53, Vietnam 1953-54) e da una politica interna d’ispirazione sovietica, che portò allo sviluppo dell’industria pesante e alla formazione delle comuni popolari. Nel 1966 cominciò la Rivoluzione Culturale Proletaria, ultimo disperato tentativo da parte di Mao per conservare il potere e impedire la formazione di una classe dirigente. Intellettuali, scrittori, simboli del passato, arte e letteratura... tutto fu costretto a superare le forche caudine del partito, subendo insensate epurazioni. La nazione fu travagliata soprattutto dai gravi contrasti tra il gruppo dirigente – fedele al verbo di Mao – e quello dei sostenitori di un’economia basata sulla proprietà privata e sul libero mercato (Deng Xiaoping fu il propugnatore di questa corrente). Si dovette attendere il 1976 per vedere la Rivoluzione Culturale sconfessata e i dirigenti maoisti processati. Eppure, in mezzo a tutta questa confusione, i rapporti tra Cina e Usa resuscitarono a miglior vita. Chiunque abbia visto ”Forrest Gump”, diretto da Robert Zemeckis nel 1994 e che valse a Tom Hanks il suo primo Oscar, non può più scordarsi l’evento. La storia fu questa: nell’aprile del 1971 si tenevano a Nagoya, in Giappone, i 31° Campionati mondiali di tennis da tavolo. Nel corso delle gare, i giocatori cinesi e americani fecero amicizia. Quando la competizione stava per volgere al termine, la squadra americana chiese di poter visitare la Cina. La richiesta fu subito riferita alle autorità di Pechino e Mao prese la decisione di mandare un invito ufficiale. E pensare che, nell’arco dei precedenti 15 anni, tra le due nazioni erano intercorsi inutilmente ben 136 colloqui diplomatici a Varsavia: dove non poté la politica, fece breccia la ”diplomazia del ping-pong”. Il 14 aprile, il primo ministro Zhou Enlai ricevette gli atleti americani nel Palazzo dell’Assemblea Nazionale. Il ghiaccio era rotto. Dopo aver preso le dovute misure di sicurezza, Henry Kissinger – allora incaricato del presidente Richard Nixon per la sicurezza nazionale – volò in Cina, via Pakistan, in missione segreta. Il suo nome in codice fu ”Polo 1”, e ogni riferimento al celebre viaggiatore veneziano non fu puramente casuale. S’imbastirono i termini per una visita ancor più ufficiale, tanto che, alle 11.30 del 21 febbraio 1972, un gigantesco Boeing 707 atterrò all’aeroporto di Pechino. Il primo uomo a scendere la scaletta fu Nixon, primo presidente americano a visitare un Paese che non aveva relazioni diplomatiche con il suo. Ma se nel 1979 si giunse finalmente a un trattato congiunto tra le due parti e a un lento ma inarrestabile progresso di apertura, soprattutto economica, la Cina resta ancora un difficile pianeta, almeno per quanto riguarda la politica interna. Tutto il mondo ricorda inorridito la durissima repressione della contestazione del movimento democratico, guidata dagli studenti, e terminata nel sangue in piazza Tian’anmen, nel 1989. Luci e ombre sembrano però giocare a ping-pong anche oggi, pur terminati gli innumerevoli contrasti dell’isolazionismo maoista e scoccata l’ora del cosiddetto ”socialismo di mercato”, propugnato da Deng Xiaoping (1904-1997). « uno strano connubio» così lo definisce Maria Weber «in cui il socialismo si mescola con il capitalismo, aprendo progressivamente spazi al libero mercato». Fine delle incomprensioni e via libera agli scambi, dunque? Mario Lenzi