Andrea Colombari, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 5 giugno 2004
Non si era mai visto nulla di simile prima. E il mondo si prepara a celebrarne il 60esimo anniversario
Non si era mai visto nulla di simile prima. E il mondo si prepara a celebrarne il 60esimo anniversario. Perché quello di Normandia (6 giugno 1944) è il più grande sbarco della storia militare. Basta dare un’occhiata ai numeri per rendersene conto. Dall’Inghilterra, via mare, migliaia di soldati degli eserciti angloamericani raggiungono le coste della Francia settentrionale. Lo fanno su 6 navi corazzate, 27 incrociatori, 164 cacciatorpediniere e oltre 6mila mezzi da sbarco, mentre sulle loro teste volano quasi 11mila aerei. In tutto, gli alleati contano su una forza di circa tre milioni di uomini, di cui poco meno dei 2/3 sono americani. L’operazione, denominata ”Overlord” (Signore supremo), porta allo sfondamento del Vallo Atlantico, la linea di fortificazioni voluta da Hitler a protezione delle coste tra il Mare del Nord e i Pirenei. Gli alleati entreranno a Parigi il 28 agosto del ’44. La notte prima del 6 giugno la Bbc aveva diffuso il segnale d’attacco: era la seconda parte del verso ”La canzone d’Autunno” di Verlaine. Intanto si organizzava la forza aerea alleata. E poco dopo la mezzanotte il primo aliante Horsa della sesta divisione britannica del generale Gale atterrava nella Francia settentrionale occupata dai tedeschi. Il punto prescelto è a nord-est del canale di Caen, in Normandia. Comincia così il «giorno più lungo», il D-Day (dove anche ”D” sta per ”day”). Le forze speciali inglesi e i parà americani dell’82esima divisione si impadroniscono di zone strategiche per coprire le spiagge dello sbarco. Ma la fortuna non è dalla loro: si disperdono tra le numerose paludi della zona. Molti annegano e altri vengono rintracciati solo il giorno dopo, però lo scopo della missione viene lo stesso raggiunto. E così poco dopo le cinque del mattino parte il bombardamento navale: lo sbarco è vicino. Il tempo è grigio su quei novanta chilometri di costa scelti per l’attacco. Lì le spiagge hanno cinque nomi in codice. Utah e Omaha, le due più occidentali, toccano agli americani. Le altre tre più a est – Gold, Juno e Sword – sono invece per gli anglocanadesi. Ma ci sono anche francesi, norvegesi, belgi, polacchi, neozelandesi, cecoslovacchi e sudamericani. L’aviazione tedesca è stata praticamente distrutta negli aeroporti. E così non c’è quasi nessun pericolo per la flotta. Nuovi gioielli militari aiuteranno i marines: sono le Higgins boat, piccoli mezzi da sbarco (11 metri) con un portellone-rampa dal quale gli uomini possono uscire di corsa. E poi ci sono i Double Drive Tanks, carri armati a doppia propulsione che, impermeabilizzati in tela, galleggiano per centinaia di metri prima di raggiungere la spiaggia. Per attaccare con la marea crescente, le operazioni iniziano da Utah: verso le sei e trenta qui sbarcano i primi americani della quarta divisione fanteria del generale Roosevelt. La risacca è minima e la resistenza tedesca debole: la corrente marina ha portato gli alleati più a sud del previsto. L’errore evita molte perdite umane e dopo solo due ore le avanguardie sono sulla strada per Sainte-Mère-glise. Non hanno la stessa fortuna quelli di Omaha: qui il mare è agitato e così diversi mezzi affondano. In molti affogano sotto il peso (30 chili!) delle attrezzature. I primi plotoni del quinto corpo d’armata americano del generale Gerow mettono piede sulla spiaggia e vengono inchiodati dal piombo della 352esima divisione di fanteria tedesca del generale Kraiss. Gli alleati sono sorpresi da tanta resistenza: lì dovevano esserci quelli della 719esima divisione tedesca, un reparto di anziani richiamati per necessità. Ma Erwin Rommel in persona a maggio aveva deciso quell’avvicendamento. A Gold, Juno e Sword intanto gli anglocanadesi avanzano. La situazione rimane però critica a Omaha. Il mare è diventato rosso del sangue dei soldati: non si riesce ad avanzare. pomeriggio quando Kraiss dà addirittura per fallito lo sbarco e sposta le proprie riserve verso est, per coprirsi da un’eventuale sortita britannica. Solo allora gli americani riescono a sfondare. Quel 6 giugno toccano il suolo francese oltre 150mila alleati. Ma non tutti gli obiettivi vengono raggiunti: intorno a Omaha gli americani controllano solo un paio di chilometri. E poi i porti di Caen e Cherbourg sono ancora tedeschi. Però il Vallo Atlantico è stato forzato e la liberazione dell’Europa dai nazisti è partita. Quanti uomini rimangono sul suolo quel 6 giugno? Le cifre non sono chiare. Secondo Roberto Balzani, docente di storia contemporanea all’università di Bologna, «gli americani parlarono di oltre 3.000 tra morti e dispersi e di altrettanti feriti. Gli inglesi non diedero dati ufficiali, ma secondo loro le perdite non superavano le 4.000 unità (feriti compresi). Per i tedeschi i numeri appaiono ancora più fluidi: dalle 4.000 alle 9.000 perdite». Più certi i dati di Utah e Omaha: «Circa 3.500 fra morti e dispersi in un solo giorno». Davvero tanti, sebbene «la battaglia di Stalingrado, in Russia, fu un bagno di sangue ancora più grande». Un fattore che incise molto sul numero dei caduti fu quello meteorologico. Nei primi tre giorni di giugno il cielo era limpido, ideale per le incursioni aeree. Poi il quarto giorno s’era ingrigito. L’operazione Overlord aveva pure una sezione meteorologica comandata dal capitano inglese Stagg. Il tempo per lo sbarco doveva essere buono (ideale per i marines), di luna che sorge tardi (per i parà) e di bassa marea (per individuare le difese sommerse). Stagg ha brutte notizie per il giorno 5, inizialmente designato come D-Day: temporali e mare agitato. Tutto viene rinviato. Gli uomini scalpitano. Alla fine della giornata Stagg comunica un miglioramento per il 6. E allora il comandante delle forze alleate d’invasione, il generale Dwight D. Eisenhower, decide per l’attacco. Ma a causa del cattivo tempo le operazioni aeree si sarebbero poi dimostrate difficili. E senza l’uso dell’intelligence forse sarebbero fallite. Le azioni anfibie in Nord Africa (novembre ’42), in Sicilia (luglio ’43) e ad Anzio (gennaio ’44) avevano insegnato molto. Ma come depistare i tedeschi ora su un piano (Overlord) pronto da quasi un anno? La soluzione viene da ”Fortitude”, la più grande operazione di controspionaggio della storia bellica. Grazie all’intelligence britannica era già stato decodificato Enigma, il sistema crittografico usato dai nazisti per comunicare. E senza che lo spionaggio tedesco (Abwehr) se ne rendesse conto! Fortitude così poteva prevedere le mosse del nemico, a cui peraltro fece credere, attraverso false comunicazioni radio, che uno dei possibili punti d’attacco fosse la Norvegia. Tant’è che nel D-Day nove divisioni tedesche si trovavano proprio là. Altra azzeccata mossa fu quella di far credere alla fanteria tedesca, la Wehrmacht, che l’attacco sarebbe potuto partire dal Pas de Calais, il punto più stretto della Manica. La prima armata canadese, con basi in Inghilterra, fu il fulcro di quella messa in scena che prevedeva pure armate inesistenti e un numero incalcolabile di forze corazzate in plastica. E durante lo sbarco vennero lanciati a Calais pupazzi travestiti da parà che al contatto col suolo esplodevano... Fallimento, dunque, dei servizi segreti tedeschi? Forse sì. Anche se la vera débâcle nazista è quella del quartier generale: perché non venne dato tempestivamente l’ordine di contrattacco? La maggior parte degli alti ufficiali tedeschi quel 6 di giugno si trova in viaggio verso Rennes, dove il giorno successivo si sarebbe tenuto il Kriegsspiel, un’esercitazione di guerra. Del resto il tempo è brutto e nessuno attaccherà, così si pensa. Non c’è nemmeno Rommel, che arriverà solo nel tardo pomeriggio. La sorte lo vuole in Germania per portare alla moglie un regalo di compleanno: un paio di scarpe rosse acquistate a Parigi, specificheranno i detrattori. In realtà ”la volpe del deserto” vuole parlare col Führer proprio della situazione francese. E Hitler dov’è quando gli alleati sbarcano? Dorme. Sono le sei di mattina e nessuno se la sente di svegliarlo. Lui stesso si era riservato il diritto di ordinare gli spostamenti delle Panzerdivisionen, le unità corazzate che avrebbero potuto bloccare l’avanzata alleata. Inoltre i partigiani francesi avevano fatto la loro sabotando centinaia di tralicci. E così le comunicazioni arrivano tardi e male: tutto è perso, il D-Day è ormai finito. Andrea Colombari