Varie, 1 giugno 2004
Tags : David Leavitt
Leavitt David
• Pittsburgh (Stati Uniti) 23 giugno 1961. Scrittore • «Nel 1982, quando era ancora uno studente alla Yale University, aveva pubblicato il suo primo racconto sul New Yorker, che poi era anche il primo racconto apertamente gay uscito sulla rivista più prestigiosa d’America. Nel 1985, a 24 anni non ancora compiuti, lo aveva doppiato con la raccolta Ballo di famiglia, ed era subito nata una stella. I critici, i media, i pubblicitari, gli editori, sempre a caccia di qualcosa con cui attirare l’attenzione, lo avevano messo insieme a Jay McInerney e Bret Easton Ellis per inventare il minimalismo, il movimento dei ragazzi prodigio della nuova letteratura americana: giovani, ricchi, sarcastici e un po’ disperati. David aveva vinto premi e venduto un mucchio di libri, e qualche anno dopo la seconda opera, La lingua perduta delle gru, era diventata un film per la Bbc. Poi il crollo. Veloce come era arrivato il successo. Nel 1995 il poeta inglese Stephen Spender gli aveva fatto causa, accusandolo di aver plagiato la sua autobiografia World Within World per scrivere While England Sleeps. Leavitt aveva dovuto pubblicare un’edizione riveduta e corretta, ma Spender era morto prima che la disputa potesse essere risolta. Adesso David, che ha vissuto per diversi anni in Toscana, si è trasferito in Florida dove insegna all’università. [...] ”Scrivere è l’inferno. Come diceva qualcuno, è attraversare l’oceano mentre costruisci anche la scialuppa per navigarlo. Questo è stato il libro più difficile della mia vita: ci ho messo tre anni e mezzo a finirlo. Almeno due volte sono stato sul punto di buttare il computer dalla finestra, e ho stracciato centinaia di pagine. Però raccontare storie resta la cosa che mi piace di più. Vale tutta questa pena? Non lo so, suppongo di sì [...] Quel successo iniziale è stato molto positivo, perché mi ha dato una reputazione e un nome che non ho più perso. Certe volte, però, vorrei poter pubblicare i miei libri senza firma, per evitare che si portino dietro tutto il bagaglio accumulato. Mi piacerebbe che venissero letti per quello che sono, senza necessariamente paragonarli a tutto ciò che ho fatto prima [...] Io sono cresciuto in California, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando il movimento femminista stava esplodendo. Intorno a me vedevo solo donne determinate e ribelli, che sembravano sul punto di mollare tutto e fare qualcosa di selvaggio. Erano gli anni in cui Joni Mitchell cantava che non serviva un pezzo di carta del municipio per provare l’amore, e c’era un forte senso di rivolta contro il matrimonio. Oggi, invece, abbiamo le nozze tra gay all’orizzonte: è strano come cambia l’atteggiamento della gente verso certe cose, e come si rovesciano le posizioni [...] La maniera migliore per scrivere di se stessi è allontanarsi il più possibile dalla propria persona: è un esercizio che consiglio a tutti gli autori”» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 1/6/2004). «[...] Mi piacciono i titoli che contengono giochi di parole. [...] mi interessa la frontiera tra invenzione e realtà. Sull’esperienza, nostra e degli altri, costruiamo storie che diventano racconti. Sulle idee di altri scrittori costruiamo i nostri lavori. Questa frontiera tra invenzione e realtà, tra finzione ed esperienza è l’essenza stessa della scrittura: una frontiera mobile, incerta, mai definitiva [...] Ogni tanto penso a un sito Internet dove un romanziere metta a disposizione degli altri idee o pezzi della sua esperienza che non può sviluppare. Sarebbe meraviglioso! [...] La società americana è intrisa di senso della famiglia. Non è la famiglia italiana, più stabile e compatta. Noi ci spostiamo, abbandoniamo il nucleo d’origine, ma ci portiamo dietro memorie e frustrazioni. Tutti i nostri grandi casi pubblici hanno al centro la famiglia: figli contro padri, divorzi, affidamento dei bambini, eccetera [...] la casa come luogo fisico, catalizzatore di emozioni, è qualcosa che manca agli americani. Cambiamo spesso città, lavoro. Io per esempio sono cresciuto in una casa che non è più dei miei genitori. E allora resta un senso di nostalgia per qualcosa di irrimediabilmente perduto. [...]» (Roberto Festa, ”la Repubblica” 9/4/2005).