Varie, 31 maggio 2004
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Minguzzi Luciano
• Bologna 24 maggio 1911, Milano 30 maggio 2004. Scultore • «Uno dei più noti scultori italiani del XX secolo [...] il padre Armando, anch’egli scultore, gli facilitò l’ingresso nel mestiere, il cui apprendistato compì all’Accademia della sua città, che lo avrà poi docente. precoce il suo ingresso nel sistema espositivo del ventennio: già alla Biennale dal ’34 (a Venezia tornerà poi con continuità, sino a vincere nel 1950, ex-aequo con Marcello Mascherini, il premio per il miglior scultore italiano) e alla Quadriennale romana del ’35 (ove pure sarà premiato, alla IV edizione del ’43, il suo vasto ”gruppo d’opere”). Per allora, conta per lui soprattutto la lezione di Martini, unita all’omaggio frequente alla plastica classica, e talora ingentilita dalle flessuosità e dalle grazie di Manzù (Ballerina giapponese ad esempio); ma presto, in coincidenza con l’oscuro presentire che molti artisti ebbero delle atrocità della guerra e con la vicinanza al gruppo milanese di ”Corrente”, o forse semplicemente per il presentarsi imperioso ai suoi occhi d’una sua fonda vocazione, il suo mondo di forme prese a farsi più drammatico e allucinato, scritto e quasi corroso da un segno affannato, che scava impietoso la materia in subbuglio. Così sono, tra l’altro, i molti gessi e bronzi di animali, modellati al transito fra quinto e sesto decennio e che gli valsero l’inatteso gran premio alla XXV Biennale, dove aveva esposto soltanto tre opere: figure d’un mondo che, scrisse Cesare Gnudi, ”si tien fermo a una dura realtà, in un discorso teso, drastico, robusto, radicato a fondo nella vita”. Quest’indirizzo che prese allora la sua plastica s’era dato egemone in Minguzzi che pur aveva conosciuto forme scultoree affatto diverse, entrando in contatto a Parigi, appena dopo la guerra, con la migliore avanguardia internazionale. Sul declinare degli anni Cinquanta, infatti, il suo linguaggio, come recuperando la memoria di quegli incontri certo folgoranti, si arricchisce di suggestioni diverse, che vanno dall’organicismo astratto di Arp a Calder, ad altro ancora: così da portare lo scultore, in un talora sorprendente sviluppo, a sintesi e stilizzazioni quasi integralmente astratte, e lontane comunque dall’asprezza espressionista della prima maturità (Pas de quatre, ad esempio). Che tornerà infine egemone a partire dai Guerrieri, e che lo condurrà, nelle opere più tarde e soprattutto nelle grandi commissioni per le porte del Duomo di Milano e per San Pietro in Vaticano, rispettivamente compiute negli anni Sessanta e Settanta, verso una forma d’adesione fin troppo asservita alle necessità narrative del racconto» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 31/5/2004).