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 2004  maggio 29 Sabato calendario

Viene quasi da pensare al consiglio che la volpe dà al Piccolo Principe: «L’essenziale è invisibile agli occhi»

Viene quasi da pensare al consiglio che la volpe dà al Piccolo Principe: «L’essenziale è invisibile agli occhi». E l’universo disegnato dall’astrofisica, soprattutto negli ultimi anni, contiene proprio qualcosa di invisibile, ma a quanto pare indispensabile per la sua stessa esistenza. Una specie di fantasma che si aggira tra le galassie e che, come ogni fantasma che si rispetti, fa sentire la sua presenza attraverso strani segni, ma non si fa vedere. Per molto tempo è stata chiamata semplicemente materia oscura, ma oggi questo termine sembra sempre meno adatto per spiegare un fenomeno che in realtà appare composto da tre elementi molto diversi, ben coalizzati nel rendere decisamente più complicato (ma anche sempre più interessante) il cosmo che ci circonda. C’è un numero molto semplice che riassume la situazione: ciò che vediamo attorno a noi, anche con i migliori telescopi, persino ciò che vedremo con strumenti ancora da inventare, è appena un ventesimo di tutto quello che effettivamente c’è nell’universo. Quella della materia oscura inizia attorno agli anni Trenta come una storia di giostre cosmiche che vanno un po’ troppo veloci, dove al posto delle macchinine o dei cavalli di legno ci sono intere galassie. Fu l’astronomo Fritz Zwicky a rendersi conto per primo che qualcosa non quadrava in sette galassie appartenenti all’ammasso chiamato Chioma di Berenice (o semplicemente ”Coma”). In quegli anni si cominciava a misurare proprio la velocità delle galassie, e Zwicky, esaminando quelle sette, calcolò che correvano troppo. Stimando la massa delle stelle e delle nubi di materia contenute nelle galassie, quindi ricavando la forza gravitazionale con cui si attraevano l’un l’altra, l’astronomo svizzero concluse che quest’ultima non era sufficiente a tenerle legate. Sarebbero dovute andare ciascuna per la sua strada da tempo, eppure erano ancora lì. I calcoli portarono Zwicky a un risultato incredibile: da qualche parte lì in mezzo ci doveva essere una massa maggiore di quella visibile al telescopio. La scoperta dell’astronomo fu considerata quasi una bizzarria, ma poco alla volta arrivarono nuovi indizi, fenomeni simili che accadevano anche in altri ammassi di galassie. Fino a che negli anni Settanta telescopi sempre più perfezionati misero in grado gli scienziati di calcolare anche la rotazione delle galassie su se stesse, persino quella della nostra Via Lattea, e il fantasma apparve anche qui: stavolta erano le stelle ad andare troppo veloci. Quelle situate alla periferia, in particolare, avrebbero dovuto ruotare, a rigor di logica, più lentamente delle loro sorelle situate nelle regioni centrali. Invece andavano alla stessa velocità, anzi, in alcuni casi viaggiavano più spedite. In queste condizioni sarebbero dovute schizzare via perché la materia visibile in ciascuna galassia non era sufficiente a tenerle al loro posto, a meno che da qualche parte, proprio ai margini galattici, non ci fossero enormi quantità di massa capaci di esercitare un’attrazione gravitazionale in più. Da lì in poi fu un diluvio di prove sempre più convincenti e di scoperte rivoluzionarie. La ”massa mancante” oggi salta fuori in qualsiasi grande struttura cosmica: galassie, ammassi di galassie, i cosiddetti superammassi, e in ultimo persino nelle caratteristiche fondamentali dell’universo. Ecco così pronto il palcoscenico di una caccia all’invisibile che affascina gli astrofisici e fornisce loro non pochi grattacapi. A una prima occhiata può sembrare che gli scienziati si siano persi in un bicchiere d’acqua: semplicemente quella massa mancante potrebbe essere costituita da materia comune (composta di neutroni, protoni ed elettroni, quella che gli scienziati chiamano ”barionica”, di cui siamo fatti noi e che vediamo tutti i giorni). Masse planetarie simili a Giove, nane brune (stelle così piccole che non hanno potuto innescare la reazione termonucleare come il nostro Sole), stelle di neutroni e nane bianche nelle fasi finali, buchi neri stellari, persino i piccoli asteroidi, magari presenti in numero spaventosamente grande nello spazio, potrebbero concorrere a dare al cosmo il giusto ”peso”. Disseminati nelle galassie, eserciterebbero la loro attrazione gravitazionale in modo discreto, per così dire. «La caccia a questo tipo di oggetti, almeno i più massicci» dice Giancarlo Setti, docente di Astrofisica nel Dipartimento di Astronomia dell’Università di Bologna, «è stata avviata da tempo con diverse ricerche scientifiche, ad esempio i programmi Macho ed Eros». Il sistema è tutto sommato semplice: quando la luce passa vicino a un oggetto invisibile, il percorso dei raggi luminosi, come risulta dalla relatività di Einstein, viene deviato dall’attrazione gravitazionale. Il risultato è lo stesso di una lente piazzata nello spazio: «La luce delle stelle situate dietro viene distorta, amplificata in alcuni casi. Ma osservando questi effetti di microlenti gravitazionali, verso le Nubi di Magellano, piccole galassie satelliti della nostra, e verso il centro della Galassia si è visto che sono veramente pochi, e la massa totale che se ne ricava è proprio minuscola». Un’altra strada è quella di ipotizzare immense nuvole invisibili di gas situate nello spazio dentro gli ammassi di galassie. Questo gas è stato trovato grazie alle osservazioni di satelliti a raggi X, ma ha fatto sorgere più domande che risposte. «Il gas osservato» dice ancora Setti, che è stato presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, «si trova a temperature di centinaia di milioni di gradi, ecco perché non emette luce visibile ma raggi X. Grazie alle osservazioni sappiamo quanto ce n’è, e spessissimo rappresenta una quantità di materia molto superiore a quella delle galassie che vediamo al telescopio. Però, proprio per via della sua temperatura, non potrebbe mai rimanere intrappolato dentro gli ammassi: anche aggiungendo la sua massa a quella visibile non ci sarebbe in ogni caso una forza gravitazionale sufficiente a tenerlo confinato. Qualcosa del genere avviene anche attorno alle singole galassie, dove la rotazione delle stelle e del gas a grandi distanze dal centro è molto più veloce di quanto dovrebbe. «Anche sommando la materia composta dal gas caldo presente nei grandi aloni galattici, i conti qui non tornano perché è necessaria ancora altra massa per contrastare la forza centrifuga dovuta alla rotazione». In questo gioco a nascondino cosmico, insomma, manca sempre qualcosa. Ma non finisce qui: secondo le attuali teorie cosmologiche, anche la più feroce caccia all’ultimo sassolino vagante nello spazio non ci darà mai tutta la massa che ci serve per spiegare certi fenomeni. C’è un muro contro il quale si finisce per urtare. «Il fatto» continua lo scienziato «è che noi possiamo già sapere quanta materia comune, barionica, c’è nel cosmo, anche se non la vediamo. Gli elementi più leggeri, come l’idrogeno, il suo isotopo deuterio e l’elio, vengono direttamente dai primissimi momenti del Big Bang, creati in quella fase nota come ”nucleosintesi primordiale”. Il punto è che non si conoscono altri processi astrofisici in grado di produrre l’elio e il deuterio nelle abbondanze misurate nella nostra galassia e in altri oggetti celesti; i processi di fusione nucleare che avvengono negli interni stellari portano alla formazione degli elementi più pesanti, l’elio e il deuterio sono solo elementi di transizione. Quindi è solo in quel lasso di tempo brevissimo dopo il Big Bang, i ben noti primi tre minuti, che si sono verificati i fenomeni di formazione dei nuclei di questi elementi. Studiando cosa deve essere successo nella fase di nucleosintesi primordiale, del resto in condizioni di densità e di temperatura della materia tali per cui la fisica ci è ben nota, noi oggi siamo in grado di arrivare a calcolare quanta materia barionica deve essersi formata complessivamente». Una specie di censimento universale che sembra fornire finalmente qualcosa di certo, ma è proprio questa certezza che apre la porta ai veri enigmi che gli scienziati si trovano davanti oggi. A parte calcolare quanta materia comune si è formata, gli astrofisici sono infatti anche in grado di sapere quanta massa ci ”deve” per forza essere nell’universo.  una conseguenza della teoria della relatività di Einstein, secondo la quale la massa curva lo spazio-tempo (il famoso esempio della pallina posata su un foglio di gomma che viene deformato). Presa nel suo insieme, la massa complessivamente presente nell’universo determina la forma di tutto lo spazio-tempo: se ce n’è più di un certo valore l’universo finisce per incurvarsi su se stesso fino a chiudersi (le rette parallele si incontrano), se ce n’è di meno ha una curvatura negativa (le parallele divergono), se è quella giusta l’universo diventa piatto, proprio come la geometria euclidea che si studia a scuola, dove le parallele non si incontrano mai. E qui entra in gioco la teoria attualmente più seguita sul Big Bang, la cosiddetta inflazione. Nei primissimi istanti di vita, secondo questo modello, l’universo si sarebbe espanso in modo esponenziale a una velocità enorme, anche superiore a quella della luce (il superamento della velocità della luce non è in contraddizione con la Relatività di Einstein perché in questa fase era l’intero spazio-tempo a espandersi). «I calcoli teorici» dice Setti «ci mostrano che con questo tipo di Big Bang si finisce per avere un universo nel quale la massa presente deve essere esattamente quella giusta per avere una geometria piatta. L’enorme espansione dovuta all’inflazione fa sì che l’universo osservabile debba assumere questa geometria, così come, ad esempio, sempre più piatta è localmente la superficie di un pallone che viene gonfiato a dismisura». un’ipotesi che ha trovato conferma in esperimenti scientifici, come il ”Boomerang” italo-americano e il satellite Wmap della Nasa, che hanno studiato la radiazione cosmica di fondo, l’emissione di onde radio millimetriche diffusa in tutto lo spazio, ciò che resta del Big Bang, di cui rappresenta il pilastro osservativo fondamentale. «Con questi dati alla mano» continua il cosmologo «siamo allora in grado di sapere quanta massa deve esserci nell’universo, e possiamo confrontarla con quanta materia barionica si è veramente formata. Tutta la materia ordinaria, quella che vediamo o che stiamo cercando, rappresenta il 4-5 per cento della massa totale sulla base della nucleosintesi primordiale; solo circa un decimo di questa è sotto forma visibile, cioè galassie». Possiamo insomma dire che non sappiamo di cosa è fatto il 95% dell’universo. Non deve certo rendere molto orgogliosi. Cos’è allora questa massa mancante, che merita l’appellativo di oscura? «Sembravano ottimi candidati i neutrini, particelle già note che non dovevano essere inventate di sana pianta. Però quando i giapponesi, con l’esperimento SuperKamiokande, hanno dimostrato che essi sono dotati di massa, si è visto che questa è molto piccola. Siamo ora di fronte a un vero ”zoo” di particelle legate a varie teorie della fisica fondamentale, molto affascinanti ma ancora solo teorie». Insomma: capire da che cosa è composta la materia oscura ci permetterà di comprendere le dimensioni, la forma e il destino futuro dell’universo. La risposta che aspettiamo da sempre non poteva certo essere così semplice. Americo Bonanni