Giusy Cinardi e Isabella Vergara Caffarelli, Macchina del Tempo, giugno 2004 (n.6), 29 maggio 2004
SAN BERNARDINO
Sylvia Plath (nella foto) s’uccise a 30 anni col gas, John Keats morì di tubercolosi a 32, Hart Crane si buttò in mare a 25. Sembrerebbe quasi che scrivere poesie accorci la vita e che darsi alla narrativa sia più sicuro. Questo almeno è quanto emerge da uno studio condotto da James C. Kaufman, direttore del Learning Research Institute della California State University di San Bernardino. Kaufman, uno psicologo, ha analizzato la vita di 1.987 tra scrittori di poesie, racconti, opere teatrali e romanzi, uomini e donne, tutti americani, cinesi e turchi (c’è anche qualche canadese e messicano), e tutti già deceduti. Le notizie sono state prese spulciando biografie ed enciclopedie. La conclusione è che chi scrive versi ha la tendenza a morire più giovane rispetto a chi invece si dedica alla prosa: i poeti vivrebbero in media 62,2 anni, gli scrittori di racconti 66, i drammaturghi 63,4 e i romanzieri, i più longevi, arriverebbero all’età di 67,9 anni. Kaufman non sa ben spiegare, ancora, quale sia la causa del fenomeno: «Forse i poeti sono schiacciati da una pressione finanziaria maggiore. Forse hanno meno riconoscimenti. O magari risentono di più dello stress. Tutte quante queste ragioni insieme fanno sì che queste persone siano diverse da tutti gli altri». Insomma, Kaufman è convinto che «se pensi molto sei più a rischio depressione. E i poeti pensano molto, scrivono soli e così muoiono giovani».