L’Indipendente 23/05/2004, 23 maggio 2004
In diretta dal 1870”. questo l’ironico slogan del programma La fattoria, reality show condotto da Daria Bignardi e ambientato in una cascina di Castelfalfi, tra Firenze e Siena, dove 14 partecipanti, dal televenditore Roberto da Crema alla ex pornostar Selen, sono tornati indietro al XIX secolo, quando non c’erano automobili, acqua corrente, strade asfaltate, energia elettrica, termosifoni, frigoriferi e così via
In diretta dal 1870”. questo l’ironico slogan del programma La fattoria, reality show condotto da Daria Bignardi e ambientato in una cascina di Castelfalfi, tra Firenze e Siena, dove 14 partecipanti, dal televenditore Roberto da Crema alla ex pornostar Selen, sono tornati indietro al XIX secolo, quando non c’erano automobili, acqua corrente, strade asfaltate, energia elettrica, termosifoni, frigoriferi e così via. Ma perché è stato scelto proprio quell’anno come punto di riferimento? E come si viveva nelle campagne in quel periodo? E nelle città? Qual era la cornice politica nazionale? Lo chiediamo a Sergio Grasso, antropologo che ha fornito a La fattoria una consulenza storica per contestualizzare il viaggio a ritroso nel tempo. «Abbiamo scelto il 1870 - spiega Grasso - perché con la breccia dei bersaglieri a Porta Pia, avvenuta il 20 settembre di quell’anno grazie al ritiro delle truppe francesi per la guerra franco-prussiana, finisce il potere del papato dopo circa 15 secoli. Roma entra così a far parte del Regno d’Italia, diventa capitale e si compie l’Unificazione. Insomma il 1870 è la vera data di nascita del nostro Paese. Anche se, in realtà, il battesimo ufficiale dell’Italia è anteriore di circa un decennio. Il 17 marzo del 1861, a Torino, Vittorio Emanuele II proclamava il Regno d’Italia». Che cosa cambia, per la gente comune, con l’entrata dei bersaglieri nella Città Eterna? «Arriva, attraverso il passaparola, la notizia dei mutamenti (i giornali erano ancora un privilegio per pochi). Ma bisognerà aspettare ancora un po’ perché gli effetti si facciano sentire concretamente sulla vita di tutti i giorni». E gli echi di questi cambiamenti arrivano a tutti gli italiani nello stesso tempo? «Certo che no. Il contadino, in particolare, era e sarebbe rimasto ancora per qualche tempo una specie di servo della gleba che non godeva di nessuna considerazione. Ma per rendersi davvero conto di questa situazione bisogna attendere il 1875 quando il conte Stefano Jacini riesce a convincere il parlamento della necessità e della urgenza di una indagine sulla condizione agraria. Jacini era un proprietario terriero, come molti altri politici della destra di quel periodo, e si rese conto che per far incontrare diverse realtà come Nord e Sud bisognava prima studiarle, conoscerle». in questo momento che nasce il fenomeno del brigantaggio, la questione meridionale. «L’assorbimento dell’economia meridionale da parte del ben più solido mercato centro-settentrionale si aggiunge alla leva obbligatoria che dura ben otto anni, alla tassa sul macinato (soprannominata tassa sulla miseria e sulla povertà) e a varie altre misure impopolari determinando, al Sud ma non solo, fenomeni di ribellione come il brigantaggio che ha l’appoggio di vasti strati della popolazione. Il governo interviene con 120 mila soldati (metà dell’esercito regolare!) e regolamenti speciali come la Legge Pica». Almeno nei documenti pubblici, negli atti ufficiali, si comincia dopo l’unificazione a usare la lingua italiana. Come viene recepito in Toscana quest’obbligo che in Lombardia, tra i cultori del dialetto come Alessandro Maragliano, provoca aspre reazioni? «Se Dante fosse nato qualche centinaio di chilometri più a Sud o a Nord, la Divina Commedia sarebbe stata scritta in romanesco o in lombardo. Ma Dante è toscano e così la parlata su cui viene modellata la lingua nazionale è il toscano». Dunque per gli abitanti della Fattoria il passaggio all’italiano è meno traumatico. «Certamente». Il deputato e letterato Carlo Dossi riferisce, proprio in quel momento storico, una battuta milanese, secondo cui i toscani aspirano la lettera ”C” e che se pronunciano la parola ”cacca” se ne ”mangiano mezza”. «La pronuncia dei toscani, i contadini in particolare, era quella che ancora oggi si può sentire andando in un’osteria dove la gente chiacchiera giocando a carte. Ma l’italiano è quella lingua la cui pronuncia esatta, come diceva Flaiano, resta esclusiva dei doppiatori». Le cronache riportano che quando il primo re d’Italia prese possesso del Quirinale, disse «Finalmént i suma!», «Finalmente ci siamo!» Insomma, si espresse in piemontese. «Vittorio Emanuele II, si vantava di non avere mai letto un libro. E anche suo figlio Umberto. Era il perfetto sovrano di un Paese dove l’analfabetismo toccava quote impressionanti, oltre l’80 per cento della popolazione. Dove l’istruzione pubblica era organizzata solo in Piemonte e Lombardia e per il resto era affidata alle istituzioni religiose. Il retaggio cattolico, inoltre, soprattutto nel papato e nel regno borbonico, scoraggiava la lettura diretta dei testi sacri, da parte dei comuni fedeli, contrariamente a quanto avveniva nei Paesi protestanti. E diversamente che nel Nord Europa, la messa era celebrata in latino». Tornando alla nostra Fattoria, come si svolgeva la vita in una comunità rurale del 1870? «Tutto il potere era nelle mani del proprietario terriero. Poi, sotto di lui, c’era il fattore che gestiva le terre e teneva in scacco i contadini grazie al fatto che, diversamente da loro, aveva un minimo di istruzione. In fondo alla scala sociale c’era il bracciante che lavorava a giornata. Al Sud, poi, predominava una concezione feudale del latifondo. Ma una situazione vessatoria da ”Anime morte” gogoliane era più o meno comune a tutta la penisola, fatte le dovute differenze. La cascina era abitata dalla famiglia allargata. Il capofamiglia, quello che non a caso stava a capotavola, deteneva il potere patriarcale. Sotto di lui c’erano i figli che potevano raggiungere un numero considerevole. Famiglie con 10-11 figli erano assolutamente nella norma dato che la principale fonte di ricchezza in campagna era la prole. La moglie del capofamiglia aveva in mano tutta la situazione, dalla cucina alla stalla ai campi. Spesso era lei che dettava legge sul marito, figli e nuore, tanto che si può parlare di un matriarcato o anche di una dittatura della suocera sulle nuore». Lavoravano di più le donne o gli uomini? «Le donne, non c’è dubbio. La moglie del capo famiglia gestiva le scorte di cibo, decideva cosa cucinare, sovrintendeva ai lavori svolti dalle nuore, cui non lesinava rimproveri. Le donne, a parte le faccende più pesanti riservate agli uomini, svolgevano anche tutto il lavoro della stalla (dove non mancava mai un altarino protettivo dedicato a Sant’Antonio) e del pollaio, accudivano i bambini e gli anziani, cucivano, riempivano materassi e cuscini di piume di gallina, facevano scope di saggina, tenevano vivo il fuoco. Gli uomini passavano la giornata nei campi». Che cosa si mangiava nel 1870? «Il menù era dettato dalla stagione. Qualche variante poteva essere offerta dalle scorte, in particolare formaggi e salumi, vale a dire cibi conservati. Nelle città la situazione, specie negli strati popolari, era peggiore. C’erano talvolta carenze alimentari che nelle campagne non si conoscevano. In campagna si è sempre fatta meno la fame anche in tempo di guerra e non bisogna dimenticare che l’Italia postunitaria era reduce da tre guerre di indipendenza». Quali erano gli ”elettrodomestici” dell’epoca? «In cucina si faceva tutto a mano. C’erano alcune comodità. Le ghiacciaie, per esempio, mobili di legno, rivestiti internamente di metallo, dove veniva messo il ghiaccio per tenere in fresco e prolungare la durata di alcuni alimenti deperibili, presso le famiglie più abbienti, soprattutto in città. Nelle campagne non erano ancora diffuse». Ma dove si prendeva il ghiaccio? «Era fornito dalla neve. Quando cadeva si raccoglieva e si metteva in fosse site nelle cantine, dunque nel luogo più fresco della casa, anche a tre metri di profondità. Alcuni palazzi d’epoca, conservano ancora traccia di queste fosse dette nevene, che venivano coperte e duravano per buona parte dell’estate. In campagna in alternativa c’era il pozzo, dove l’acqua fresca poteva servire a conservare alcuni alimenti». Che tipo di cucina si faceva? «La cucina era una cucina di recupero. Si mangiavano molte minestre, dove si metteva un po’ di verdura, spesso appassita e altrimenti immangiabile, qualche resto di carne o salume, magari un pezzo di cotica o un pezzo di lardo... La zuppa svolgeva una funzione importantissima. Serviva a recuperare gli avanzi e renderli sterili attraverso la bollitura. Per renderla più sostanziosa, si buttava qualche pezzo di pane e anche un goccio di vino. La carne si mangiava più raramente, più che altro pollame. Le proteine derivavano soprattutto da latte, formaggio (di vacca al Nord, ovino dalla Toscana in giù) e uova. A colazione si usavano gli avanzi della sera prima, la polenta per esempio, mettendoli nel latte appena munto. Il pane durava una settimana». Si beveva più vino o acqua? «Contrariamente a quanto si crede, nel 1800 si beveva parecchia acqua. Le falde erano molto più pulite di adesso. Non c’era inquinamento perché la rivoluzione industriale, in Italia, era ancora agli albori e nelle campagne gli antiparassitari non erano ancora arrivati». Non esisteva un rischio di inquinamento batteriologico? «Le epidemie erano molto temute perché mietevano molte vittime ma a propagarle erano i parassiti. Le falde acquifere, costituite da acqua corrente, non presentavano rischi batteriologici. Il vino era più sicuro. Perché l’alcol uccide i batteri. In più fornisce molte calorie. Motivi per cui tutti consideravano questa bevanda un toccasana che fa sangue, rafforza. Per i contadini era, come per gli andini le foglie di coca, una specie di stimolante che aiuta a sopportare la fatica fisica e anche a stare su di morale. La qualità era molto più bassa di quella attuale anche sulle tavole più ricche. I vini del passato sono quasi sempre troppo dolci o troppo acidi, e spessi. Poi c’erano i distillati, come la grappa, che aiutavano a scaldarsi quando faceva freddo». Come ci si scaldava, distillati a parte? «Le case di campagna avevano un caminetto centrale, il cui fuoco restava acceso fino a sera tardi e serviva a cucinare e a scaldarsi». Nelle altre stanze? «Nelle comuni case di campagna di solito le camere da letto, che non erano mai più di due o tre, si trovavano al piano di sopra perché il caldo, anche attraverso passaggi nel muro, sale. Inoltre le stanze da letto si trovavano vicine alla canna fumaria del camino. Ma raramente avevano un camino. Più frequentemente nelle città. Per riscaldarsi nelle camere da letto si usavano le stufe o i bracieri, contenitori di rame dove veniva messa la brace del camino centrale. Alcuni bracieri erano protetti da un telaio di legno e posti sotto le coperte per riscaldare il letto. Per evitare il pericolo che bruciassero le lenzuola la brace era coperta di cenere. Questi oggetti si chiamavano preti o monache, perché, secondo l’immaginario popolare, i preti e le monache scaldavano il letto, nel senso che non facevano niente (o, secondo interpretazioni più maliziose, si infilavano nei letti altrui). Infine, nelle camere da letto di campagna, dove dormivano insieme parecchie persone, penzolavano dal soffitto i salumi appesi a stagionare e protetti dai ratti grazie alle foglie spinose del pungitopo». Qual era la situazione dei mezzi di trasporto? «Ci si muoveva a piedi o a cavallo. I ricchi avevano la carrozza. I contadini usavano dei carri più rudimentali e scomodi». La bicicletta era già stata inventata? «Quella con le ruote di grandezza uguale e la trazione posteriore, appare verso il 1880 ma resterà per anni un mezzo di trasporto molto limitato. Anche perché le strade erano di sterrato. La polvere, se si alzava il vento, costringeva a mettere sulla bocca un fazzoletto. Se pioveva le strade si trasformavano in un pantano. Anche in condizioni normali, spostarsi di una trentina di chilometri, su un calesse, richiedeva tre ore di sballottamenti continui». E la rete ferroviaria? «Nel 1861, la rete ferroviaria copriva 1.758 chilometri, di cui il 50 per cento nell’ex regno del Piemonte e il resto in valle Padana e Toscana. In un decennio [1870] si aggiungono circa 4.000 chilometri di binari. In Italia, dunque, il treno era ancora in gestazione. In alcune città, come Milano, esistevano tram a cavallo. A Londra, nel 1863, viene inaugurata la prima linea metropolitana. lunga sei chilometri e funziona a vapore. Segue New York nel 1867. Parigi nel 1900... Per Roma e Milano, bisognerà aspettare il secondo dopoguerra». Insomma, sembra che l’Ottocento sia il secolo in cui si delinea la modernità ma senza che gli effetti tocchino immediatamente la vita della maggior parte della popolazione... «Proprio così. Nel 1876 Bell, dopo avere copiato l’invenzione di Meucci, il telefono, riesce a realizzare un primo collegamento telefonico. Nello stesso anno, Otto e Langen perfezionano il motore a scoppio che verrà installato per la prima volta nel 1880 da Daimler su una automobile. Nel 1895, Marconi riesce a trasmettere segnali radio a 1.5 chilometri di distanza. Il conto delle invenzioni e delle scoperte che avvengono in questo periodo è un elenco lungo che va dal fiammifero al missile. Ma prima che ne usufruiscano tutti, soprattutto quelli della Fattoria, dovrà passarne ancora di tempo». antonio armano