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 2004  maggio 21 Venerdì calendario

DELBONO Pippo

DELBONO Pippo Varazze (Savona) 1 giugno 1959. Attore. Regista. Autore • «Ha cominciato quando aveva 5 anni e faceva Gesù Bambino nel teatrino della parrocchia. Ha vissuto on the road sulle strade d’Italia e del mondo, ha studiato teatro in Oriente, nel mitico Odin Teatret in Danimarca, a Wuppertal con Pina Bausch. È “residente” nello Stabile di Emilia e Romagna[...] I suoi spettacoli si chiamano La Rabbia, Barboni, Il silenzio, Gente di plastica, L’Urlo. In Italia, dice Delbono, “sono passati quasi inosservati”.Ma [...] riempiono le sale del mondo, soprattutto francesi. Parigi, luccicante e snob, gli ha offerto per un mese uno dei suoi teatri più belli. E gli intellettuali di destra e di sinistra si sono messi in coda. [...] il teatro, dice Delbono, “dev’essere un luogo di verità: sogni, amore, rabbia, poesia. Gli uomini, così come sono”» (Cesare Martinetti, “La Stampa” 21/5/2004). «Spesso uno spettacolo nasce da un singolo istante che non sempre si è in grado di capire e che anzi a volte spaventa proprio perché ti appartiene. Vale anche per me. Se dovessi fare teatro seguendo la mia cultura, i miei studi, credo che non sarei in grado di comunicare con tante persone e paesi diversi come invece accade. La semplicità - che non è semplificazione o procedere a caso - è fondamentale nella comunicazione, il paragone che mi viene in mente è la musica, due note che si incontrano coinvolgendo migliaia di persone. Questo non vuol dire perdere i significati o la forza delle parole. [...] È molto difficile per me raccontare un mio spettacolo, il teatro è la peste diceva Artaud, è qualcosa che vive in zone segrete, cercando quanto non è cosciente di mostrare. Il Potere è il tema evidente, anche se potremmo passare una vita intera a discutere del significato di questa parola che investe la politica, la religione, la società, la cultura ma anche l’amore. Viviamo in un sistema imbevuto di potere a ogni livello. In un certo senso è come se tornassi a un teatro “classico”, alla violenza originaria che è nel gesto di Caino mentre uccide il fratello Abele. [...] qualcuno mi ha accusato di attaccare la religione [...] Ovvio che non ce l’ho con dio ma con la contaminazione del potere che usando la sua figura nega la libertà. Urlo in questo senso esprime un bisogno profondo di spiritualità, mostra come la nostra società ha dimenticato cosa significa morire, dunque dio. Siamo tutti diversi per cultura, intelligenza, ragionamenti ma siamo tutti accomunati dalla carne, dal sangue... A un certo punto nello spettacolo grido: “il cazzo è santo”.Non è una volgarità gratuita, e la signora che si alza e se ne va indignata mostra quanta paura ci sia a dire che dio è morto e per questo viene usato come un mezzo politico. Credo che, e soprattutto in occidente, ci sia una profonda perdita del divino come coscienza del vivere e morire appunto. A Rio mi hanno detto: ma tu sei brasiliano, come fanno gli italiani a capire i tuoi spettacoli? Ora non si deve esagerare, però è vero che in un certo ambiente intellettuale si è perduta questa innocenza. La cultura è diventata un luogo di potere [...] Mi sembra che a volte chi fa cultura in Italia non abbia più occhi per vedere. Il teatro va visto con occhi e schiena diritti e invece mi sembra che ci sia un vecchiume - e non è un fatto anagrafico - che ha paura di tutto quanto mette in discussione i suoi riferimenti. Non è per parlare solo del mio lavoro, ma penso che in quanto facciamo esprima un progetto importante, se non altro perché qualcuno come Bobò, che ha passato tutta la vita chiuso in un manicomio, oggi si racconta su un palcoscenico. È una rivoluzione importante, che coinvolge l’intero sistema e non ha nulla a che vedere col fatto di essere famosi o meno. Il teatro deve essere una forma espressione che arriva a tutti, un modo di guardare insieme al mondo, non una cosa per pochi adepti. Altrimenti diventa un luogo di soli profumi borghesi [...]» (Cristina Piccino, “il manifesto” 19/10/2004). «[...] ha plasmato un teatro di emozioni a misura d’uomo, ha messo in piedi una compagnia di vagabondi e anomali, ha creato eventi di intensità più vissuta che recitata [...] “[...] non mi isolo dal mondo, perché mi sporco le mani anche con Genet o Pasolini, perché vedo in Bobò un Pulcinella, perché mi interessano pubblici diversi e perché in definitiva mi dà più piacere la sarta che ha visto tre volte Urlo piuttosto che un intellettuale (io con l’apparato culturale mi ci scontro). Ma prima che accadesse tutto questo io ho convissuto con la morte e col dolore. Ho dovuto far fronte a vuoti, handicap, depressioni [...] Io nasco in un paesino piccolo della Liguria, ho fatto il chierichetto e il boy-scout, a tre anni e mezzo ero un Gesù Bambino coi riccioli biondi. Madre insegnante, papà segretario d’ospedale (dopo aver deposto il violino, lui forse discendente di Paganini) [...]. Io amavo il teatro. Ho lasciato Economia e Commercio a quattro esami dalla laurea. Ho condiviso arte, viaggi ed esperienze con un grande amico divenuto tossicomane, stroncato giovane. Un trauma. Nell’89 mi sono scoperto affetto da una malattia grave, con conseguente esaurimento nervoso. Pur figlio di madre cattolicissima, ho scelto un’altra spiritualità (lei mi diceva ‘Tutto passa perché Dio perdona’ e andava a Lourdes). Ho avuto bisogno del teatro [...] Ho fatto pratica di nascosto, sono stato un ribelle in un corso del polacco Ryszard Cieslak, ho incontrato Pepe Robledo in un seminario, ho fatto un training all’Odin in Danimarca, da noi ho dato ripetizioni in una scuola per cuochi, ho frequentato danza, a Farfa ho dato grande fiducia a due donne, la Bausch e la Rasmussen, forti ma anche fragili. Gli uomini sono più chiusi, hanno paura di restare feriti, ma io amo il maestro che sa piangere, come in Madadayo di Kurosawa. Feci proposte anti-Odin, a base di Blues Brothers, Laurie Anderson, Janis Joplin. Pina Bausch mi disse ‘Segui la tua strada, tu sei un creatore’. Poi, anni dopo, mi ha voluto a Wuppertal con Barboni, accanto a Baryshnikov e Forsythe. Nel frattempo ero andato in Sud America, nei villaggi indios, per trovare lo spirito della gente comune, che veniva allo spettacolo dopo essere andata a messa. Anni duri, con la malattia che m’aveva causato un’infezione al midollo, da non farmi camminare. Ma fare l’attore e impostare temi e storie era tutto. Ne La rabbia mi servì molto la coscienza del Pasolini uomo anche incoerente, diverso, ma mai di lobby. E poi m’hanno riscattato i diseredati, l’animalità dei miei attori-compagni [...] Io non sono ideologico. Bertinotti m’ha chiamato a un convegno e m’ha invitato a dire quello che volevo. Ho parlato di spiritualità. Bisogna esprimere qualcosa che appartenga agli altri. Il tuo ‘io’ deve comprendere un ‘io’ più grande. Senza investire la categoria del popolare, che è pericolosa, commerciale. Mi avevano detto che a Berlino il pubblico sarebbe stato refrattario a Urlo, e io per risposta ho calcato sulla poesia che dedico a mia madre, toccando la segretezza, l’anima di molti. Paure? Quella della morte. Me la sono portata appresso a lungo. Poi me ne sono affrancato, ne sono scappato via. Sono andato a Sarajevo, in Palestina, mi sono buttato in zone dove si crepa. E sono volato. Il fatto è che la nostra società s’è dimenticata della morte [...] Il teatro ha di bello che investe dalla punta dei piedi alla testa. I sentimenti prendono solo la testa, ti ci perdi, diventi bambino, procedi nel banale e nel mostruoso. Io sono Gemelli, voglio tutto doppio... Ho relazioni con quadri e statue di Cristo, con Zappa e Beethoven, con certe parole di Shakespeare che sento fraterne, con Pasolini, con Rimbaud”» (Rodolfo Du Giammarco, “la Repubblica” 19/4/2005).