Varie, 21 maggio 2004
PAVESI Attilio
PAVESI Attilio Caorso (Piacenza) 1 ottobre 1910, Buenos Aires (Argentina) 3 agosto 2011. Ciclista. Medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1932 • «Los Angeles 1932, 100 chilometri a cronometro, prova olimpica: tutti aspettano la vittoria del danese Falk Hansen, campione del mondo, e invece trionfa un ventiduenne italiano, partito per ultimo. Attilio Pavesi, il nostro più antico oro olimpico vivente. [...] Vive in Argentina dal 1937. Non male neppure quello scherzo: arrivò per una Sei Giorni e ci è rimasto per oltre sessant’anni. Ripercorriamo la strada? Cento chilometri di ricordi? Attilio sorride furbo. Praticamente è già sui pedali. “Sono nato a Caorso, in provincia di Piacenza, nel 1910: primo ottobre. Dodici fratelli. Mio padre morì che avevo 13 anni. C’era da portare a casa il pane, perciò entrai nella bottega di Gino Tansini che riparava bici e poi ha sfornato i ciclomotori Gitan. Ho cominciato a pedalare, chiaro. La prima corsa la vinsi a 14 anni, a Zerbio. Ricordo la voce alle mie spalle quando scappai: “Lasciatelo andare, lo riprendiamo...” Sì, quando? Correvo per la Robur, che è stata anche la società di Pino Dordoni, il marciatore. Che orgoglio quel pomeriggio in piazza del Duomo a Milano, tra la gente che leggeva l’annuncio pubblico: “Il Gran Premio della Vittoria è stato vinto dal piacentino Attilio Pavesi”. Io spiegavo: “Sono io Pavesi. Ho vinto io la corsa stamattina”. Non mi credeva nessuno... A forza di vincere mi chiama la “Cesare Battisti” di Milano. Dovevo fare anche il campionato del mondo, solo che ero a militare, alla Farnesina, con Meazza che io chiamavo “milanes arius”. Il Peppino era molto legato a me. Usciva dalla caserma solo se uscivo anch’io. Si andava ai Parioli, a giocare ai cavalli. Persi il campionato mondiale però mi portarono all’Olimpiade del ’32. Il saluto del Duce a Roma, tutti in posa per la foto al porto di Napoli che avrei spedito a mio fratello durante la sosta a Gibilterra, poi la Biancamano salpa. Al mattino ero l’unico che faceva colazione, tutti gli altri avevano il mal di mare. “Ci allenavamo sul ponte: corsa, ginnastica. Sembrava dovessi fare la riserva. Invece Zaramella risultò il peggiore negli ultimi test e il tecnico Bertolino mise in strada me, il veneto Segato, il ligure “Gepin” Olmo e il lombardo Cazzulani. Io parto per ultimo: un giovane militare sconosciuto, che non può fare neanche pubblicità... Prima di me l’inglese Harvell, terz’ultimo è il danese Hansen, grande favorito, il campione del mondo. Il via è a Balcon Canyon: una discesa, poi ponti e viadotti su burroni da brivido. La mia partenza è una scoppiettata. Rapporto 56x18. Dopo una decina di chilometri ho già ripreso l’inglese. Pedalo come un diavolo e becco anche il grande Hansen, partito quattro minuti prima di me. Ma fa il furbo. Si attacca alla mia ruota. Gli mostro il pugno: maledetto, vuoi farmi squalificare? Mi dico: Attilio, se lo hai preso, puoi anche staccarlo. Lo stacco. Al chilometro 60 mi avvertono che ho il miglior tempo. Chi mi ferma più? Costeggio il Pacifico, Malibu. Gli italo- americani sulla strada mi caricano di energia, riconosco i pugili piacentini Rossi e Longinotti che mi incitano, fa tifo anche il poliziotto che mi segue in moto. C’è in testa Segato al momento del mio arrivo sul traguardo di Santa Monica. Abbasso il suo tempo di 1’16’’. Ho volato alla media di 40,514 chilometri orari. Il c.t. Bertolino mi bacia. Quarto è Olmo, sesto Cazzulani. Vuol dire anche la medaglia d’oro a squadre. Un trionfo! Rientrando al villaggio incrocio Luigi Beccali che sta andando alla finale dei 1500. Gli dico: ‘Nonguardare in faccia nessuno’. Risponde: ‘Grazie, Attilio’. E si avvia verso il trionfo. C’erano quasi duecentomila persone per la festa al Coliseum. Tutti quegli americani che scandivano: Pa-ve-si Pa-ve-si! Pelle d’oca... Passai giorni da eroe. Seconda Guasti, nobildonna che viveva in America, mi regalò duecento dollari. Mi portarono a Hollywood. Anita Page, gran bella attrice, volle conoscermi, mi guidò negli studi della Metro Goldwyn Mayer e mi presentò al grande capo, che tutto orgoglioso mi chiese: ‘Cosa ne pensa?’ ‘Che siete dei grandi imbroglioni — gli dissi — le montagne che pedalo io sono vere, le vostre sono finte’. Da quel giorno il cinema mi piace di meno. A Caorso i giornalisti presero d’assalto il negozio di mio fratello alla ricerca della mia foto che avevo spedito da Gilbilterra. Al ritorno, il Duce si complimentò con tutti gli olimpionici. Mi mise una mano sulla spalla: ‘Bravo’. Bravo, sì, però mi mancavano cinque giorni di militare e me li fece fare tutti lo stesso... Nel ’33 passai professionista con la Maino di Girardengo e Guerra. Feci anche un Giro d’Italia, ma caddi subito. Volevo ritirarmi, poi pensai: e a casa cosa faccio? Arrivai fino a Milano. Ultimo, però. Da professionista ebbi un sacco di guai, gastrici soprattutto. Furono stagioni balorde, poi nel ’37 ripresi ad andar forte e mi proposero quella Sei Giorni a Buenos Aires. Pagavano bene, erano spettacoli combinati, ma in pista dovevi impegnarti per davvero. All’andata rischiai di rimanere a Rio de Janeiro perché andai a vedere una partita al Maracanà e tornai al porto che stavano ritirando la scaletta dalla nave. Dopo la Sei Giorni, non trovai transatlantici per tornare subito. Vedevo che in Italia avevano una gran voglia di far guerra e così sono rimasto in Argentina per sempre. “Vicino a Buenos Aires viveva già mia sorella Bianca. Un giorno andai a Leandro en Alem, 300 chilometri dalla capitale, dove sapevo che abitava gente di Caorso. Conobbi Aida Marcotti, argentina figlia di piemontesi e il cuore diventò un tamburo, come in salita... L’ho sposata. Mi ha dato due figli: Patrizia e Claudio. Presi casa a Saenz Pena, periferia di Buenos Aires, vicino al campo dell’Argentinos Juniors. Ricordo il piccolo Maradona che palleggiava per tutto il campo nell’intervallo delle partite. Aprii un negozio di biciclette: ‘Bicicletera olimpica’. Tolsi dall’insegna la mia foto di Los Angeles perché arrivava troppo lavoro. All’inizio feci qualche corsa anche qui. Per gli emigrati italiani ero una specie di eroe. Mi hanno voluto bene. E poi è bello correre tra le vigne di Mendoza. Ho organizzato anche un giro d’Argentina. Ora il ciclismo non lo seguo quasi più. Questo non mi piace. Ogni tanto muore qualcuno. In occasione dei Giochi dell’ 84, tornai a Los Angeles. Ospite. Tutto pagato. Mi venne voglia di un tuffo nell’oceano, solo che nuotando superai la linea della zona balneabile. Un elicottero richiamò due poliziotti in spiaggia. Volevano multarmi. Mi ribellai: ‘Multare un olimpionico del ’32?’ Gli agenti contattarono l’elicotterista che atterrò e volle farsi fotografare con me. In Italia ci sono tornato per la prima volta nel ’55, poi nel ’96 per le elezioni: volevo votare almeno una volta nel mio Paese. Nel settembre scorso decisi di tornare a Caorso per sempre. Mi sono detto: Attilio, sei italiano, devi morire nella tua terra. Mia figlia Patrizia mi ha accompagnato in Italia e mi ha trovato una buona sistemazione alla ‘Madonnina’. Mi hanno fatto un sacco di feste. Però mi mancavano troppo i miei figli e i miei nipoti. Così Patrizia, a Natale, è tornata a prendermi e mi ha riportato in Argentina. E poi non era ancora l’ora di morire”» (“La Gazzetta dello Sport” 21/5/2004).