Varie, 10 maggio 2004
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KADYROV Akhmad Karaganda (Kazakistan) 23 agosto 1951, Grozny (Russia) 9 maggio 2004 (assassinato). Politico
KADYROV Akhmad Karaganda (Kazakistan) 23 agosto 1951, Grozny (Russia) 9 maggio 2004 (assassinato). Politico. Governatore della Cecenia • «Le sue sette vite il ribelle pentito se le era già giocate tutte. L’ottava gli è stata fatale. Luglio 2000, Gudermes, la residenza di Akhmad Kadyrov, appena nominato capo dell’amministrazione filo-russa in Cecenia, è assaltata a colpi di mitragliatrice. Agosto dello stesso anno, una bomba ad alto potenziale viene disinnescata vicino alla sua casa. Ottobre, un kamikaze si fa saltare sempre a Gudermes nel tentativo di assassinarlo. Gennaio 2001, i ribelli attaccano per strada con mitra ed esplosivi il convoglio di Kadyrov. Settembre, attentato alla sede del governo pro-russo mentre Kadyrov è dentro in riunione. Gennaio 2003, un ordigno telecomandato è scoperto sul percorso dell’auto di Kadyrov. Maggio, una donna kamikaze si fa esplodere in mezzo a una festa dove lui partecipa. Perfino i terroristi conoscono la stanchezza. Le forze del presidente separatista Aslan Maskhadov fanno sapere che ”non si cureranno più di provare ad assassinarlo”, perché si è fatto tanti e tali nemici che ”qualcuno si occuperà di sbrigare il lavoro”. E il colpo numero 8, chiunque lo abbia sferrato allo stadio di Grozny, è andato a segno. Ma Kadyrov non era un qualunque presidente-fantoccio, il garzone del macellaio incaricato di riscuotere il conto a nome del padrone. La sua figura tozza e la sua mascella quadrata erano tutt’uno con la vicenda cecena di quest’ultimo mezzo secolo, con le sue tragedie, le sue miserie e i suoi orrori. Il leader filo-russo della repubblica caucasica era in realtà nato in Kazakhstan, dove l’intero popolo ceceno era stato deportato da Stalin con l’accusa di collaborazionismo coi nazisti. La sua famiglia potè fare ritorno in Cecenia solo tre anni più tardi, dopo la morte del dittatore sovietico. Delle sue molte incarnazioni, comandante militare, leader politico, capomafia, la prima a manifestarsi fu quella religiosa. L’irrequieto Kadyrov, nonostante l’ateismo di Stato, riuscì a perfezionarsi in studi islamici in Uzbekistan fino a diventare nel ”93 vice-muftì della Cecenia. Nel dicembre del ”94 le truppe di Mosca invadono la riottosa provincia caucasica e Kadyrov depone il Corano per il mitra, a capo di una delle divisioni ribelli che dopo 20 mesi di guerra costringono il Cremlino alla ritirata. Ma i suoi rapporti con la leadership indipendentista si deteriorano in fretta: Kadyrov li accusa di deriva estremista e di dare spazio al fondamentalismo islamico. La rottura si consuma nel ”99, quando le truppe russe fanno ritorno in Cecenia e Kadyrov compie la sua scelta di campo, incontrando a Mosca l’allora premier Vladimir Putin. In lui, che vanta impeccabili credenziali patriottiche cecene, il Cremlino trova il candidato naturale per mettere in piedi nel 2000 un’amministrazione civile filo-russa. Kadyrov si guadagna così sul campo il titolo di nemico numero uno della guerriglia, ma non per questo le sue relazioni con Mosca sono senza spine: lui accusa le forze russe per le continue violenze contro la popolazione, il governo di Putin accusa lui e la sua amministrazione di ruberie nella gestione dei fondi per la ricostruzione. Cionondimeno il Cremlino decide di puntare le sue carte su Kadyrov in quella farsa svoltasi nell’ottobre del 2003 e denominata elezioni presidenziali cecene: i due rivali più accreditati vengono depennati dalle schede e l’affluenza alle urne risulta stratosferica, nonostante i seggi vadano desolatamente deserti. Tant’è: Kadyrov diventa presidente malgrado non goda di nessun appoggio fra la popolazione, grazie anche agli alacri servigi di suo figlio Ramzan, capo dei servizi di sicurezza e responsabile con le sue centinaia di scherani di una serie di sparizioni, uccisioni e violenze. I tratti del regime di Kadyrov si delineano con rapidità: lui e suo figlio concentrano nelle loro mani le risorse finanziarie e le infrastrutture poliziesche della provincia e provano, nonostante la diffidenza di numerosi generali moscoviti, a fare in modo che le forze cecene filo-russe svolgano un ruolo centrale nella repubblica. Kadyrov si muove in direzioni molteplici: da un lato si oppone con ferocia all’introduzione della legge islamica e ai «wahabiti», come lì vengono chiamati gli integralisti religiosi, dall’altro incarica suo figlio di aprire contatti con i signori della guerra ribelli per convincerli a passare dalla sua parte. E, per tenere buoni i generali russi, spartisce con loro le ricchezze della Repubblica, a partire dal contrabbando di petrolio. Ma il personaggio è odiato. Giudicato autoritario, ambizioso, vive trincerato nel suo feudo di Tsentoroj, nel sudest della Cecenia, trasformato in una fortezza imbottita di mitragliatrici dove si addestrano le sue milizie, delle quali si circonda in ogni momento e che sono accusate di sequestri, saccheggi ed esazioni» (Luigi Ippolito, ”Corriere della Sera” 10/5/2004). «L’ex muftì di Cecenia era stato un combattente indipendentista nella prima guerra cecena (1994-1996) e si era seduto al tavolo dei negoziati di Khasaviurt al fianco del vincitore, appunto Maskhadov, proprio di fronte allo sconfitto generale Aleksandr Lebed, allora segretario per la sicurezza nazionale del Cremino. [...] Presidente artificiale della Cecenia, aveva un esercito ufficiale di 13 mila ceceni, pagato direttamente da Mosca, e un esercito ufficioso di almeno 5000 uomini - i famigerati ”kadyrovzi” - che costituivano la sua guardia personale, sotto il comando del figlio maggiore, Zelimkhan Akhmadovic. L’uno e l’altro non sono stati sufficienti a salvarlo. Il suo clan era di Gudermes, seconda città della Cecenia. Ma lui era nato nelle steppe di Karagandà, dove la sua famiglia era arrivata sui treni organizzati da Stalin. Rientrato nella terra degli avi, all’inizio degli Anni 80 aveva ottenuto una borsa di studio per una scuola di teologia islamica nell’Uzbekistan sovietico. Andrà poi a perfezionarsi in Giordania, giusto in tempo per ritornare in una Cecenia che, nel frattempo, era diventata indipendente con Dzhokar Dudaev. Si era guadagnato la fiducia di Aslan Maskhadov come comandante militare. E la tenne fino al momento in cui Shamil Bassaev invase il Daghestan, nell’agosto del 1999. A quel punto cambiò bandiera e si mise dalla parte di Mosca. Fu l’inizio della sua ascesa, questa volta sotto la bandiera del Cremlino. Che gli è costata la vita. Shamil Bassaev aveva messo una taglia di 100 mila dollari sulla sua testa. Islamista piuttosto indifferente alle dispute teologiche, Kadyrov aveva preferito i rubli alla compagnia dei wahhabiti di Qattab. Ma nemmeno il moderato Askan Maskhadov aveva digerito il suo collaborazionismo con i russi e lo aveva condannato a morte come ”nemico del popolo”. Del resto non si può dire che Kadyrov fosse molto amato in Cecenia, salvo che nella sua natia Gudermes, e salvo che nel suo clan. La sua banda si era caratterizzata, nell’interregno tra il 1996 e il 1999, come una delle più attive nei sequestri e nello scambio di sequestrati. La sua ascesa alla presidenza lo aveva ”legalizzato”, ma non poteva ripulirlo dall’odio contro i russi e contro gl’infedeli, che gli si era stampato addosso e dal quale non poteva emanciparsi. Putin aveva puntato tutte le sue carte su di lui per realizzare una normalizzazione della Cecenia senza trattative con i ceceni, cioè tutta russa. Prima lo aveva messo al governo della repubblica ribelle, facendogli guidare un processo costituzionale che sarebbe approdato nell’approvazione della nuova costituzione mediante referendum. Il che avvenne nel marzo dello scorso anno, con il solito esito plebiscitario di sovietica memoria: il 90 per cento dei ceceni avrebbero votato a favore di una costituzione scritta a Mosca, che esordiva con la proclamazione della Cecenia come ”parte integrante della Federazione Russa”. Votarono, insieme ai ceceni, anche i soldati russi che occupavano il territorio. Ma i pochi osservatori esterni, anche russi, cedettero a quelle cifre. Inoltre l’affluenza alle urne non era stata per niente plebiscitaria, come invece sostenevano le fonti ufficiali russe. Al massimo aveva votato il 30 per cento degli aventi diritto. Elezioni invalide come, del resto, quelle con cui Kadyrov divenne presidente. Comunque la strategia di Putin aveva messo a segno due bersagli: una costituzione e un presidente. Restavano da compiere gli altri atti procedurali: elezioni del parlamento, trasferimento dei poteri a un governo legittimamente costituito, spartizione in dettaglio dei poteri tra la Repubblica autonoma di Cecenia e la Federazione Russa» (Anna Zafesova, ”La Stampa” 10/5/2004).