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 2004  maggio 09 Domenica calendario

la Repubblica, mercoledì 11 febbraio Il giorno dopo la morte di Leonid Breznev i giornali di New York dedicarono un’intera pagina a un annuncio in cui si proclamava a caratteri cubitali: «Noi abbiamo informato l’America della morte del presidente sovietico prima che la maggioranza dei Russi lo venisse a sapere»

la Repubblica, mercoledì 11 febbraio Il giorno dopo la morte di Leonid Breznev i giornali di New York dedicarono un’intera pagina a un annuncio in cui si proclamava a caratteri cubitali: «Noi abbiamo informato l’America della morte del presidente sovietico prima che la maggioranza dei Russi lo venisse a sapere». La pubblicità era del Satellite News Channel, il quale prometteva: «Dateci diciotto minuti e vi daremo l’universo». In queste due frasi sono riassunti i fini e le ambizioni, i vizi e le virtù del giornalismo. Il cui compito principale è quello di informare: e quindi la notizia è l’insostituibile materia prima su cui lavorano coloro che lo praticano. Notizia che va cercata, valutata, via via aggiornata, precisata e magari commentata. Fa uno scoop chi dà una notizia prima degli altri, oppure, sempre prima degli altri, denuncia fatti illeciti, o descrive situazioni fino allora sconosciute: e riesce in questa impresa grazie a un’inchiesta intelligente o alla prontezza dei riflessi o a un semplice colpo di fortuna o alla maggior libertà d’espressione di cui può disporre. Da qui una competizione che, se si svolge in modo corretto, è una garanzia di libera informazione. Rispetto a quella di una società totalitaria, l’informazione in una vera democrazia è in definitiva uno scoop permanente. comunque il concetto espresso nella trionfale pubblicità newyorkese, in occasione della morte di Breznev. Questo è il risvolto nobile dello scoop. la sua faccia rispettabile. Ma ne ha anche un’altra decisamente grottesca, ridicola, o addirittura disonesta. La parola scoop suona fastidiosa, irritante, quando si riferisce alla mania, all’ossessione della notizia esclusiva. Può diventare sinonimo di sensazionalismo: e allora indica un vizio che avvelena l’informazione. Un vecchio amico, Henry Tanner, con il quale ho seguito tanti avvenimenti e condiviso numerose emozioni in parecchi angoli del mondo, ne aveva uno molto drastico: sosteneva che un giornalista non deve dire più del settanta per cento di quel che sa. Al massimo l’ottanta per cento. La regola valeva, in generale, per qualsiasi galantuomo. Non è infatti dignitoso rovesciare sul prossimo tutto quel che sappiamo. Henry aveva imparato questo principio a scuola, nella Svizzera natale. Glielo aveva insegnato un professore e non l’aveva mai dimenticato. Diventato un giornalista americano, Henry ne aveva fatto un precetto. Un principio morale cui doveva attenersi, secondo lui, con rigore, chi per professione comunica al prossimo quel che ha visto o ascoltato, ossia una verità del momento destinata a cambiare nei minuti, ore o giorni successivi. Quando Henry morì il suo giornale, il ”New York Times”, scrisse che «aveva seguito tanti avvenimenti eccitanti senza mai eccitarsi». Un giorno, durante la guerra civile libanese, mentre percorreva il centro di Beirut in automobile, un proiettile uccise Edouard Saab, corrispondente di ”Le Monde”, che era al suo fianco, al volante. Con il viso sanguinante per le schegge del parabrezza, Henry riuscì a prendere il controllo della macchina che andò ad arenarsi in una barriera di filo spinato. La sera stessa scrisse un lungo articolo in cui raccontava con grande scrupolo i fatti, ma senza il minimo cenno al ruolo che aveva avuto e alle ferite riportate. Gli fu proposto il Pulitzer, il maggior premio giornalistico americano, ma lo rifiutò, perché avrebbe dovuto dividerlo con un collega del suo giornale che mandava l’autista libanese a raccogliere la notizie, e lui restava al riparo, in casa. Della stessa pasta di Henry era fatto Egisto Corradi, un cronista che ”andava sul posto” a controllare le notizie, e che per questo fu un esempio abbastanza raro tra i grandi giornalisti italiani della sua generazione. Lavorando spesso con Henry, a volte allo stesso tavolo, sentivo il peso della sua morale come una camicia di forza. Capivo che poteva essere un giusto contrappeso agli slanci del mestiere (propensi a diventare un vizio), ma non era facile ottemperare al precetto di Henry. Non lo era probabilmente neanche per lui. Si può ”dare l’universo” in una manciata di minuti come prometteva la pubblicità del Satellite News Channel? Il poeta Archibald MacLeish ha scritto che siamo inondati di fatti ma abbiamo perduto, o stiamo perdendo, la capacità di apprezzarli sul piano umano. E ha paragonato il mare di notizie che oggi ci investe, ci travolge, alla maniera in cui il mondo apprese la notizia della ritirata di Napoleone da Mosca, nel 1812. La notizia fu portata a New York dal nonno di MacLeish alcuni mesi dopo l’avvenimento e occupò le prime pagine di tutti i giornali, suscitando forti emozioni. E a suscitarle fu il racconto di una sola persona. Quello fu uno scoop che lasciò il segno. Quasi due secoli dopo (in Il libro del riso e dell’oblio), Milan Kundera scrive che nel nostro tempo il sanguinoso massacro del Bangladesh ha cancellato in un secondo l’invasione della Cecoslovacchia; l’assassinio di Allende ha soffocato i rantoli del Bangladesh agonizzante; la guerra nel Sinai ha fatto dimenticare Allende; il genocidio in Cambogia ha fatto dimenticare il Sinai; e noi potremmo continuare dicendo che la seconda guerra del Golfo ha fatto dimenticare la prima guerra del Golfo (tra Iraq e Iran); che la guerra del Kosovo ha fatto dimenticare quelle del Golfo; che l’attentato alle Torri Gemelle ha fatto dimenticare il Kosovo; che la guerra anglo-americana in Iraq ha fatto dimenticare quella in Afghanistan; e che gli attentati in Iraq fanno dimenticare quelli in Israele e in Palestina, e viceversa. Al punto che la gente non ricorda più niente e confonde tutto. Kundera parla di distruzione della memoria come una delle caratteristiche delle società totalitarie. Ma anche quelle democratiche corrono questo rischio. Un’alluvione di notizie sommerge i ricordi nella civiltà dominata dalle immagini che si succedono sugli schermi casalinghi, davanti ai quali è seduta passivamente larga parte dell’umanità. Non è facile resistere all’informazione alluvionale, che per la prima volta nella storia dell’uomo è, o può essere, perlomeno sul piano tecnico, simultanea in tutti gli angoli della Terra. La ritirata napoleonica da Mosca oggi sarebbe vista in diretta televisiva nello stesso momento a Shanghai e a New York. O descritta, sempre nello stesso momento in cui avviene, da un cronista della stampa scritta attraverso il suo computer o il suo telefono cellulare. Il nonno del poeta MacLeash potrebbe al massimo anticipare la notizia di qualche secondo o minuto rispetto ai concorrenti. Non di più. A quali rimedi si può ricorrere per non essere travolti da un progresso al tempo stesso straordinario e ingombrante? Un progresso che ci consente di informare e di essere informati come mai è accaduto a coloro che ci hanno preceduto, e che al contempo rischia di saturare la nostra memoria, al punto da renderla inoperante, come un lavandino ingorgato? Il precetto di Henry, adeguato ai tempi, rivisto e corretto, può servire. In fondo Henry esaltava lo spirito critico. La sua parsimonia nell’esibire tutto quel che sapeva non era dettata dal desiderio di nascondere le informazioni. Henry era un giornalista senza compromessi. La sua reticenza nel mostrare tutte le sue conoscenze era dovuta al timore di andare oltre i limiti della fragile verità del momento che è quella del giornalista. Una verità che può mutare, che spesso cambia d’ora in ora, secondo lo svolgersi dell’avvenimento in corso. Per cui il cronista onesto deve aggiornarla di continuo, anche a costo di contraddire quel che ha appena detto o scritto. Il trenta o il venti per cento che Henry voleva tenere per sé era un margine di sicurezza: un margine che, a suo avviso, doveva consentire di mettere nella giusta prospettiva un avvenimento o una situazione, prima di rivelarla interamente. Non so se Henry ha fatto degli scoop nella sua lunga vita professionale, nei Balcani durante la Seconda Guerra mondiale, a Washington o a Mosca o al Cairo o a Roma dove fu corrispondente. Ma sono certo che se ne ha fatti prima di mandarli al suo giornale li ha soppesati, misurati, analizzati con la meticolosa precisione inculcatagli dal professore svizzero nella scuola di Zurigo. Bernardo Valli