il Giornale, martedì 3 febbraio, 9 maggio 2004
il Giornale, martedì 3 febbraio Questo articolo uscì per la prima volta su ”La Tribuna” il 22 febbraio 1919 col titolo Dello stare a sedere, per essere poi raccolto nel volume Pesci Rossi l’anno seguente Il più giovane giornalista di Londra mi raccontava, e non per la prima volta, di quando riuscì a far ballare come tante scimmie i più canuti redattori di Fleet Street; quelli che sanno dove il diavolo tien la coda e che in questo momento potrebbero dirvi, per filo e per segno, e senza paura di smentite, tutto quello che fra vent’anni sarà venuto fuori dalle decisioni della Conferenza della Pace
il Giornale, martedì 3 febbraio Questo articolo uscì per la prima volta su ”La Tribuna” il 22 febbraio 1919 col titolo Dello stare a sedere, per essere poi raccolto nel volume Pesci Rossi l’anno seguente Il più giovane giornalista di Londra mi raccontava, e non per la prima volta, di quando riuscì a far ballare come tante scimmie i più canuti redattori di Fleet Street; quelli che sanno dove il diavolo tien la coda e che in questo momento potrebbero dirvi, per filo e per segno, e senza paura di smentite, tutto quello che fra vent’anni sarà venuto fuori dalle decisioni della Conferenza della Pace. Perché i giornali dei vecchi redattori avevano annunziato che appunto la Conferenza si sarebbe aperta il 15 dicembre. Ma il più giovane giornalista, non ricordo più con quale intrigo, era invece riuscito a sapere che prima del 20 la Conferenza non avrebbe cominciato i lavori. Fu un fulmine a ciel sereno. Alcuni di quegli antichi topi furon chiamati dal proprio direttore e si presero una gran lavata di testa. Altri, e ce ne erano che avevano sette o otto figlioli, persero la gratificazione di Natale, e ringraziare Dio se non andò peggio. Io dicevo amichevolmente al mio giovane collega di non potere apprezzare il suo successo, dal momento che la Conferenza finì col non aprirsi che il diciotto di gennaio; e che se i più vecchi giornalisti s’erano sbagliati di cinque giorni, correggendo quell’informazione, senza nessun riguardo per le loro condizioni di famiglia, il giornalista più giovane s’era sbagliato di un mese. Come un artista che si sente incompreso, egli cominciò a spiegarmi le clausole, le convenzioni, le regole e controregole di quella caccia, di quell’inseguimento, di quella scherma o moscacieca col Tempo, della quale egli aveva fatto la sua vocazione. Se vuol raggiungere il Tempo, gli ribattevo, inutile lei si metta a corrergli dietro. Le volerà via il cappello. Se vuol raggiungere il tempo, la miglior tattica è sempre di aspettarlo da sedere. L’ultimo telegramma non è mai quello che le porta in bicicletta il fattorino. Nel migliore dei casi, sarà il penultimo. Dopo cotesto, lei dovrà sempre ricevere almeno un altro telegramma. «Ma di dove?» m’interruppe quasi brutalmente, facendo l’atto di tirar fuori il taccuino. «Naturalmente, da lei stesso». Noi partivamo da punti di vista affatto diversi. Secondo lui il giornalista era essenzialmente un uomo che corre. Secondo me il giornalista è essenzialmente un uomo che sta fermo. Secondo lui tutti i telegrammi importanti dovevano ancora arrivare. Secondo me tutti i telegrammi importanti erano bell’e giunti. Egli non credeva che alle notizie che vengon di fuori. Io non credevo che alle notizie che vengono di dentro. Egli si basava sulle ignote disposizioni di un ignoto collega di Nuova York o di Stoccolma; e tutto per lui dipendeva dalla colazione che questo collega aveva fatto più o meno bene la mattina, o dallo chèque che questo collega aveva o no ricevuto dal direttore della sua agenzia, o dalla lettera che l’amorosa gli aveva o no scritto, secondo che la ignota mamma dell’ignota amorosa avesse o non avesse permesso di scrivere una lettera all’ignoto collega... Il mio metodo, con tutti i suoi difetti, aveva il merito di farmi dipendere soltanto dalle disposizioni di me stesso. Egli si affidava all’incerto di coloro che dovrebbero sapere. Io mi affidavo alla sicurezza di coloro che almeno sanno che non sanno. Egli sognava ambiziosi colloqui con i primi ministri, i presidenti dei governi lontani; si vedeva su un cammello, in testa a una carovana. Io consideravo sufficiente alle mie ambizioni un’intervista con la vecchia che la mattina veniva a rifarmi il letto; e se questa intervista mi fosse venuta bene, ero sicuro di lasciare un’orma, un’impronta, anche in questo campo contrastatissimo del giornalismo moderno. «Noti anche questo», gli dicevo. «In giro per le strade, gridando un fascio di giornali, lei non troverà che i vecchi e gli zoppi, gli sciancati e i bambini: messaggeri che sembran fatti apposta per far tardi, e in certo modo sono affrancati dalla schiavitù del tempo». Ma egli seguitava a studiare le tariffe telegrafiche e gli orari ferroviari, e scoteva la testa, vedendomi uscire dal British Museum o da un libraio, con un pacco di libri sotto braccio. «Badi», mi diceva, «con cotesto sistema lei diventerà uno storico, un controversista; diventerà, e glie l’auguro di cuore, uno scrittore e un polemista. Ma non diventerà mai quel che si chiama un vero e proprio giornalista». «Badi», gli rispondevo, «con il suo sistema, lei certamente non diventerà uno scrittore, né uno storico, né un polemista, e non diventerà neppure un giornalista. Con il suo sistema, Dio liberi, lei non potrà che diventare un vero e proprio imbecille». Ci separammo cordialmente, e da allora non ho saputo più nulla del più giovane giornalista di Londra. Forse è andato in persona a rendersi conto di quel che sta a fare l’uomo di Stoccolma, che non tien contatto e ogni tanto gli fa perdere qualche battuta. O con un elmo di sughero ha potuto imbarcarsi per Honolulu dove intervisterà gli uomini influenti, per sapere con esattezza che cosa pensano del sistema wilsoniano del mandato. A quante fatiche, a quanti stenti vorrebbe sottoporsi, pur di metter mano un’altra volta su una notizia come quella che fece danzare i redattori di Fleet Street! E fintanto sarà a caccia di notizie, nessuno oserà sospettare che a sua volta questo cacciatore è un fuggitivo. E caccia disperatamente la notizia, l’informazione, perché fugge disperatamente l’idea, l’opinione. per lui infinitamente più facile acchiappare a Honolulu o magari all’Inferno una notizia anche vera, che possedere, sedendo tranquillamente in casa sua, un’opinione, anche sbagliata. E i giornali son tutti pieni di notizie e si fanno un punto d’onore di precedersi d’un minuto in una notizia e cercan di presentare una notizia che non è altro che una notizia in modo che sembri magari anche un’opinione. Perché nella società capovolta ch’è la società moderna, a forza di denaro e di uomini, si può sempre procurarsi quella cosa costosa e che vien di lontano ch’è la notizia. Ma inarrivabile e rara rimane la cosa casalinga e che non costa nulla: l’opinione. E notizia mangia notizia, come ragno mangia ragno. E il telegramma di Stoccolma, che aveva scancellato il telegramma di Tokio, viene annullato dal telegramma di Nuova York. La notizia ha infiniti gradi di verità, infinite sfumature di adattazione alla verità. la posposizione continua, il continuo «aggiornamento», di quel fatto unico e concreto ch’è l’opinione; di quel momento infinitamente semplice, sano e chiarificatore ch’è il momento dell’opinione. E il mondo, o almeno la parte viva rimasta nel mondo, figura d’interessarsi alla notizia, di sentirsi impegnato nel falso dramma della notizia. Ma in realtà non gli importano e non gli possono importare che le opinioni. Il mondo si muove, corre per proprio conto. E non ha bisogno di gente che gli corra dietro a dirgli che corre, di gente con la kodak al collo a prendergli infinite istantanee delle calcagna e della schiena. Ha bisogno di assi e non di tangenti. Non ha bisogno di quelle algebriche cinematografiche che son le notizie. Ha bisogno di quelle realtà costanti e di puro senso comune, di quelle realtà stabili e compromettenti che son le opinioni. E dentro le opinioni il ballo delle notizie è fatuo come il ballo dei moscerini dentro il raggio di sole che monta o declina sull’orizzonte con una legge senza rapporto con la loro follia. E il giornalismo moderno della notizia, se qualche cosa è o può essere, non può esser altro che lo stesso giornalismo antico dell’opinione. E il giornalista in sé e per sé è men che nulla se non consente ad esser qualcosa come uno scrittore e un controversista, uno storico e un polemista. Il redattore di Fleet Street o di via Solferino o di via Milano, bene o male bisogna si rassegni a dipendere, se vuol sapere e vuol fare qualcosa, da Swift e da Machiavelli, da Pascal, da Demostene e da Sant’Agostino. Emilio Cecchi