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 2004  maggio 09 Domenica calendario

il Giornale, lunedì 2 febbraio Una scrittrice, Ellen Sander, ne attestò «lo sguardo febbrile e miserabile, che rende le quindicenni perverse», altri lo descrissero capace di resistere, senza un’ora di sonno, per giorni e settimane

il Giornale, lunedì 2 febbraio Una scrittrice, Ellen Sander, ne attestò «lo sguardo febbrile e miserabile, che rende le quindicenni perverse», altri lo descrissero capace di resistere, senza un’ora di sonno, per giorni e settimane. Secondo gli agiografi fu Satana, nientemeno, a scatenare nel suo corpo malato una vitalità fuori norma e un talento iperbolico. E precocissimo: a sedici anni Jimmy Page, poi chitarrista e genio dei Led Zeppelin, già stregava le platee nei teatrini del Middlesex, dove era nato da James, impiegato della Raf, e Patricia, segretaria d’un medico. Era il ’44, nel cielo britannico infuriavano gli Zeppelin e Jimmy, detto Pagey, s’inoltrò in un’infanzia senza amici, ché «la solitudine, se ai più fa paura, a me dà sicurezza». Gli regalarono una chitarra spagnola e Buddy Holly, James Burton, Bert Jansch furono i suoi primi modelli, Jeff Beck e Eric Clapton i primi sodali. Frequentò soprattutto il blues, che ammaliava Londra con Alexis Korner, John Mayall, Cyrill Davies. Di Robert Johnson, icona di tutti i bluesmen del Delta, amò soprattutto un verso: «Salve Satana, è l’ora di andare». Poi, da una biografia ottocentesca, apprese che Nicolò Paganini, il sommo violinista «aveva ottenuto dal demonio il proprio genio, in cambio di un’anima già abbastanza dannata». Da Goethe scoprì che Mefistofele aveva sedotto Faust impugnando violino e archetto, e come un Paganini rinato imparò a suonare la chitarra con l’arco, traendo dal Mi acuto stridori e lamenti d’un inferno virtuale, dal Mi basso borborigmi e cachinni d’un Ade venturo. Le bubbole che ogni tanto si scrivono, o dicono, sui nessi tra rock e satanismo, lo intrigarono e lo lusingarono. Suonò in vari gruppi, fu musicista di studio per i Them di Van Morrison, gli Who, i Kinks, Johnny Halliday. Per comprarsi una chitarra elettrica, e coronare il suo sogno al crocicchio tra Les Paul, Django Reinhardt e Jimi Hendrix, fece lo strillone e il lavavetri, l’autostop lo portò in Scandinavia e di là un viaggio in India lo condusse tra poeti del mantra e incantatori di serpenti. Tornò stremato nel fisico, ma con molte idee in più. A diciott’anni entrò nei Crusader e svenne al primo concerto, malato com’era di polmoni e d’inedia. Ristabilitosi alla meglio, suonò con Sonny Boy Williamson II, un maciste di muscoli e blues, e del grande maestro lo incantò il sarcasmo saturnino, la costante ubriachezza, le imprese mirabili che gli si attribuivano: come l’avere incendiato un albergo di Birmingham, arrostendo un coniglio in una caffettiera. L’ingresso negli Yardbirds svelò un Page «ispirato, gentile, servizievole - fu detto - almeno finché l’ego non si mise di mezzo». Un barcone ormeggiato sul Tamigi fu la sua casa, e là vuole la leggenda che Lucifero andasse a trovarlo, in una notte doverosamente tempestosa, porgendogli un contratto in caratteri runici e una penna intinta nel sangue. Fu da lì a poco che nacquero i New Yardbirds, poi divenuti i Led Zeppelin. Jimmy reclutò il bassista John Paul Jones, timido e colto, e Robert Plant, un marcantonio in camicie di pizzo e boccoli biondi, innamorato di saghe celtiche e chanson de geste. Poi arrivò John ”Bonzo” Bonham, che aveva costruito la sua prima batteria con un bidone di sali da bagno, una lattina di caffè e alcune pentole, foderandola di carta stagnola per farla crepitare come uno Sten. Una filastrocca del tempo di guerra - «Vola, Zeppelin, brucia l’Inghilterra» - suggerì il nuovo nome del gruppo, le utopie escatologiche di Plant sposarono, per la legge degli opposti, gli estri sulfurei di Page e il successo non tardò. Tour trionfali, festini bislacchi e morbosi, droga, alcol, tumulti scandirono la neonata celebrità. L’America adottò i nuovi divi, William S. Burroughs coniò per loro la definizione di heavy metal e Page la rispedì al mittente, protestando: «Non siamo dei fracassoni, ci attraggono la luce e l’ombra, il dramma e la versatilità». Attratto da tanto talento Elvis Presley li ricevette coprendoli di monili preziosi, e volle intonare con loro Treat me like a fool. In Vietnam, i marines incalzavano i vietcong al ritmo di Whole lotta love, il primo hit del quartetto: «Ti darò il mio amore, baby/ vuoi tutto quanto il mio amore?». Fu all’alba degli anni Settanta che Jimmy lesse, per caso, un libro di Alesteir Crowley, il papa dei satanisti. Alpinista, mago, grande affabulatore, costui si diceva capace di cancellare la propria immagine degli specchi, di risuscitare plotoni di demoni perché lo assistessero nei suoi duelli, di dialogare con la testa d’un uomo decapitato, che di notte rotolava per le sue stanze. Predicò il culto di Toth e di Horus «per ricreare lo Spirito ucciso dai preti», asserì che «l’amore è degradazione e dannazione», viaggiò tallonato da creditori e polizia. W. B. Yeats lo cacciò personalmente da un’associazione esoterica, la Sicilia lo bandì dopo che lui vi aveva impiantato l’«abbazia rustica di Thelema» e morì nel ’47, sopraffatto dall’asma e dallo sfacelo dei bronchi. Page acquistò Boleskine House, vicino al lago di Lochness, dove Crowley aveva abitato, e la tramutò in tempio: la riempì con i libri del guru, i suoi tarocchi, le tuniche da druido che Alesteir aveva indossato per officiare i suoi riti. Un satanista famoso, Charlie Pierce, fu incaricato di arredare la villa, la disseminò di simboli apocalittici e leggiadrie floreali, occultò il montavivande in un antico confessionale. Quanto a Page, fece suo il motto di Crowley «fa’ quello che vuoi, è il solo modo di essere», e vi sovrappose le parole che Burroughs, il più dannato tra i vati della beat generation, aveva dedicato proprio ai Led Zeppelin: «Far musica vuol dire rifornirsi alle fonti dell’energia magica, e può essere pericolosissimo». Dal tutto, poi, ricavò una sintesi folgorante: «Vivo rischiando, la prudenza mi è impossibile, l’esistenza è una danza sul ciglio del baratro». Non gli difettò la coerenza: ingaggiò John Bindon, gangster e omicida, lo insignì del titolo di Primo Assassino e gli affidò il servizio d’ordine dei Led Zeppelin. Dell’ondata punk, che invadeva l’Europa con la sua rozza irruenza, disprezzò tutto tranne un gruppo, i Damned, il cui nome evocava panorami infernali, e il cui ”carisma negativo” lo sedusse. Si cimentò in sortilegi irrorati dal sangue di pipistrelli, e forse lo inorgoglì la torva nomea che il suo satanismo gli andava creando. Né mancarono i pretesti: un guardiano di Boleskine House finì suicida, un altro impazzì e tentò di sterminare la propria famiglia. Bonzo morì nell’80, dopo una notte innaffiata da quaranta bicchieri di vodka. Morirono ancora un fotografo amico di Pagey, l’ex Yardbird Keith Relf, un altro amico e il figlioletto, cinque anni, di Robert Plant. Tutto questo fu addebitato alla magia nera, che Page praticava e poi smentiva, senza persuadere nessuno. Le sue amanti lo descrivono, invece, tenero e cavalleresco, più simile a un principe azzurro che a un vicario di Satana. Charlotte, una modella francese, lo amò fino a dargli una figlia, Miss Pamela, scafata regina delle groupies americane, attestò: «Mi fa sentire una principessa, è soffice e pudico come una gemma di rosa». Lori Maddox, che gli si diede a 14 anni, raccontò: «Ci vedevamo e piangevamo a dirotto, tanto eravamo felici. Poi l’eroina lo ha rincretinito». E forse fu a causa dell’eroina, e d’un delirio protrattosi per almeno un decennio, che alla fine Pagey crollò, non riuscendo più ad assegnare un metodo alla propria follia: «Fornisce un esempio perfetto di magia impazzita - accusò il regista Kenneth Anger - non potendo più comprenderla, gli è impossibile sopportarla». Lui, melanconicamente, confermò: «Ho impiegato anni cercando un angelo con un’ala spezzata, ho inseguito il canto d’un cigno che muore, che è il suono più bello mai esistito. Ora m’aspetta un monastero, o un manicomio: per impazzirvi in pace». Quando Bonzo morì, per due anni Page affondò nel silenzio. Ne riemerse suonando Chopin a un concerto benefico, Clapton e Beck, presenti, lo trovarono «scheletrico, rinfrancato, buffonesco». Annunciò d’avere ripudiato l’eroina, ma fu arrestato due volte per fatti di coca. Nell’84 escluse di voler rifondare i Led Zeppelin, Plant ribatté definendolo «il Wagner della Telecaster, il Mahler della Les Paul», e l’anno dopo si ritrovarono, sul palco del Live Aid, per offrire a un miliardo di telespettatori un dagherrotipo di quello che erano stati. Un tour e un buon disco tentarono invano di rendere a quel dagherrotipo i colori della realtà: mancava la convulsiva passione d’un tempo, l’empito mistico, l’ossessione faustiana. Oggi si parla sempre meno di Page, che il 9 gennaio ha compiuto sessant’anni. Paul McCartney lo definisce «una reliquia, che ricorda un tale di nome Jimmy Page», gli agiografi raccontano, con qualche rammarico, d’un uomo ricco, solo e in pace col mondo. Forse è stato lui, a stancarsi di Satana. O forse ha ragione Georges Bernanos: il diavolo è un amico volubile, «mai che rimanga con te fino in fondo». Cesare G. Romana