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 2004  maggio 09 Domenica calendario

Tagliare i copioni teatrali

La Stampa, sabato 14 febbraio Secondo un eminentissimo studioso di Shakespeare, il professor Andrew Gurr, ai tempi loro i drammi del Bardo non venivano recitati così come appaiono nella raccolta postuma del 1623 che ce li ha tramandati - il cosiddetto in-folio - bensì in versioni molto più brevi. Il prologo di Romeo e Giulietta annuncia uno spettacolo di due ore, ma per consegnare tutto il testo che abbiamo ce ne vogliono almeno quattro. Gurr mette a confronto l’Enrico V dell’in-folio con quello uscito più di vent’anni prima in un volumetto formato in-quarto, di solito considerato inaffidabile perché privo di passi importanti e addirittura di episodi interi: ricavato da un copione incompleto, si sosteneva, pubblicato alla macchia da un editore pirata. Nossignori, dice ora il professore. Mettete in scena la versione ridotta dell’in-quarto, e vedrete che funziona molto meglio di quella cosiddetta integrale. Shakespeare scriveva e scriveva, ma poi gli attori sfrondavano, non senza il suo benestare. A chi sa come vanno le cose nel teatro questa tesi, ultimamente molto discussa tra gli addetti ai lavori, sembra la scoperta dell’acqua calda. Rarissimi sono infatti i testi che vanno in scena senza tagli; tra quelli di cui ho esperienza io, direi soltanto alcuni di Harold Pinter ovvero di Alan Ayckbourn, due autori molto diversi ma che entrambi architettano meccanismi alterabili solo con gran rischio di chi lo fa. Ma penso a un altro grande contemporaneo le cui opere mi è capitato di tradurre, Tennessee Williams: quasi nessuno dei suoi lavori è mai stato proposto al pubblico nella versione in cui lo si può leggere in volume. I registi li falcidiarono sempre. Margo Jones eliminò da Zoo di vetro persino i previsti cartelli quasi brechtiani che nelle intenzioni del drammaturgo dovrebbero annunciare i vari episodi. Elia Kazan ridusse drasticamente il finale del Tram che si chiama desiderio, e poi tagliò un intero atto dalla Dolce ala della giovinezza. Dal canto suo, naturalmente, Tennessee Williams consegnò alle stampe i testi completi, talvolta augurandosi nella prefazione che prima o poi qualcuno ne rispettasse l’integrità. Da morto lasciò detto che proibiva di alterarli, il che causò non poche vertenze finché visse la sua eccentrica amica ed esecutrice testamentaria Maria Britneva, Lady Sanjust [...]. Prima di essere investito di una specie di incarico ufficiale da questa signora, che mi aveva conosciuto tanti anni prima e che pertanto si fidava di me - il primo, valoroso traduttore di Tennessee Williams, Gerardo Guerrieri, essendo morto nel frattempo - io avevo tradotto, molto alla svelta e per una cifra modesta ma molto benvenuta, le prime versioni di commedie buttate giù da Tennessee pensando di portare a Broadway Anna Magnani. L’incarico qui veniva da Anna, che anche lei si fidava di me o, perlomeno, più del mio inglese che del suo; ma che in ogni caso non era affatto ansiosa di tornare a calcare le scene, soprattutto in un idioma straniero. Inoltre Tennessee la vedeva diversa da come si vedeva lei. C’è una lettera dal set di Pelle di serpente in cui Tennessee si domanda, non infondatamente, perché la Magnani tormenti tanto il direttore della fotografia - «non è certo né per la giovinezza né per la bellezza che è arrivata dov’è arrivata». Aveva ragione, ma proprio per questo desiderio di fermare il tempo Anna non poteva apprezzare il personaggio della protagonista della Dolce ala, un’attrice in declino, drogata, sulle soglie della vecchiaia, costretta a pagare un gigolò. Nella versione che tradussi io questa erinni aveva addirittura un nome turchesco, la Principessa Pazmezoglu, poi diventata Alexandra Del Lago in quella definitiva (nel film la fece Geraldine Page, neanche lei troppo disposta a sembrare un mostro; la cosa le fruttò comunque un Oscar). Poi arrivò La discesa di Orfeo, riciclo di un lavoro molto giovanile, Battle of Angels. Qui l’uomo aveva un rilievo ancora maggiore che nella Dolce ala, e Anna non abboccò, salvo dire di sì alla versione cinematografica: il succitato, deplorevole Pelle di serpente, che diventò una guerra tra due superstar ciascuna decisa a fare il verso a se stessa senza badare all’altra - una gara di Kitsch vinta da Marlon Brando, il quale oltre a giocare in casa riuscì a dimagrire miracolosamente recuperando l’aspetto, già compromesso, con cui aveva sfondato lo schermo, del resto solo sette-otto anni prima. In quei beati anni 50 vidi anch’io qualche volta Tennessee Williams, che adorava Roma e ci veniva sempre volentieri. L’aveva scoperta come una specie di paradiso in cui tutto era permesso sin dal 1948 [...]. Gli piacevano molto i ragazzi italiani, quelli che incontrava per strada, millenni prima dell’arrivo dell’Aids (apprezzò parecchio anche i calzoni aderentissimi dell’attore che faceva Stanley Kowalski all’Eliseo e che era Vittorio Gassman); ma diversamente da come aveva fatto a Parigi, dove aveva trovato il teatro vecchio e superatissimo, legò subito anche con gente del suo mestiere, come Visconti e il suo assistente Zeffirelli, e non mancò il leggendario Troilo e Cressida nei giardini di Boboli. In seguito Visconti gli offrì di curare la versione inglese dei dialoghi di Senso. Williams lo convinse a affidarli invece al suo amico musicista (ma anche scrittore, era da poco uscito Il tè nel deserto) Paul Bowles, promettendo di seguire l’operazione. Convocato da Tangeri dove viveva, Bowles arrivò a Napoli con due ragazzi arabi. Tennessee andò a prenderlo con la sua Buick guidata dal fedele partner di allora, Frank Merlo, siciliano del New Jersey, e quando il gruppetto attraversò i campi di canapa prima di Terracina gli arabi, stimolati dall’odore, fecero fermare la macchina, scesero, tornarono con una bracciata di vegetali, e appena giunti a Roma cucinarono una torta che fornì un accettabile surrogato del kif. I dialoghi di Paul Bowles non piacquero, e Tennessee non si dannò per riscriverli; ma era disinteresse, non mancanza di vena. Proprio come Shakespeare, anche se all’interno di un’esperienza molto più circoscritta (come ha detto Gore Vidal, in tutta la sua carriera non fece che riproporre versioni dei pochi personaggi fondamentali della sua esistenza, sua madre, sua sorella, suo padre e suo nonno), Tennessee Williams, almeno quello degli anni d’oro, scriveva torrenzialmente, con ferrea disciplina - smodato edonista nelle ore libere, aveva orari di lavoro punitivi che rispettava in modo scrupoloso - e con grande velocità. Tra l’altro era un eccellente dattilografo, che talvolta faceva ingaggiare dei bei giovinetti per copiare le sue pagine, e poi provvedeva lui stesso. Il suo senso della proprietà linguistica era infallibile, particolarmente per quanto riguarda il parlato. Le sue commedie migliori sono recitabili in modo supremo, soprattutto se tagliate; ma le centinaia di lettere, vivaci e disinibite, in cui racconta se stesso a confidenti come i surricordati Donald e Maria, che le hanno pubblicate, sono altrettanto affascinanti. [...] Come Shakespeare, infatti, e come la vita, anche Tennessee Williams accostava volentieri il comico e il tragico. Nel Tram che si chiama desiderio, patetica trenodia per una donna che vive di illusioni, non si fa che litigare per un bagno perennemente occupato. Allo stesso modo nelle lettere Tennessee, ipocondriaco perenne, mescola la cronaca dei suoi mali e delle sue disgrazie con avventure spassose e paradossali. Alcol e farmaci assunti scriteriatamente lo resero alla lunga difficile da frequentare. Quando lo conobbi io era, benché spesso brillo, sempre allegro e di ottimo umore. Adorava Anna, ma allo stesso tempo la prendeva un po’ in giro. Una sera ebbi l’incarico di accompagnarli entrambi a teatro per fare un po’ da interprete. Era la prima romana di un testo di e con Eduardo, anche questo con una parte scritta in origine per la Magnani, che al solito si era poi tirata indietro; tutto ciò era stato spiegato a Tennessee, il quale avrebbe dovuto farsene adeguatamente impressionare - non era il solo drammaturgo ai piedi di Anna! Inoltre Anna lo aveva preparato: «Vedrai recitare il più grande attore del mondo». Lui però fu dispettosissimo. Arrivati all’intervallo, disse: «Un grande attore? Per carità! un cane insopportabile. Andiamo via, Anna, sto morendo di noia». E Anna, senza capire che l’altro lo faceva apposta: «Non capisci niente! Come ti permetti!» - e lo fulminava con i celebri occhi sempre drammaticamente segnati dai calamari... Quando seppe della morte di Anna, Tennessee era a New York. Si commosse fino alle lacrime, e Kazan fece lo stesso. Guardarono insieme alla moviola 1870, l’ultimo film televisivo di Anna, dopodiché Tennessee organizzò una messa funebre per lei nella cattedrale di St Patrick. Terminata la cerimonia, come scrisse all’amica Maria, «mi sono alzato e ho pronunciato un piccolo ricordo di tutti quei giri a mezzanotte che io e il Cavallo (chiamava così Frank Merlo, per via dei suoi denti) facevamo con la Magnani, col suo pacco di cibo per i gatti randagi di Roma - il Foro, il Colosseo, Villa Borghese - era un rito notturno per lei, lo sai, non faceva mistero della sua preferenza per gli animali rispetto agli esseri umani. Alla fine ho detto: ”Sono sicuro che qui tra noi, oggi, c’è il fantasma di un gatto romano affamato, a questa celebrazione della scomparsa di un grande spirito, la nostra cara Anna”». Masolino D’Amico