il manifesto, giovedì 15 gennaio, 9 maggio 2004
«Quando disegno», annota, «l’infermiera mi dice: ”Lei mi fa proprio paura, ha una faccia da assassino!”»
«Quando disegno», annota, «l’infermiera mi dice: ”Lei mi fa proprio paura, ha una faccia da assassino!”». Scrivere per lui significa «disegnare, legare le linee in modo che diventino scrittura, o slegarle, in modo che diventino disegno. Scrivo: cerco di delimitare esattamente il profilo di un’idea, di un gesto. Tutto sommato, accerchio fantasmi, trovo i contorni del vuoto, disegno». Lo stile, in fondo, come sottolineato a suo tempo da Roland Barthes, è sempre qualcosa di grezzo, uno scarto in cui consiste, propriamente, «la ”cosa” dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione, la sua solitudine». Ciò detto, è sempre possibile che «un autore preferisca la sicurezza dell’arte alla solitudine dello stile». Cocteau avrebbe voluto portarla davvero fino in fondo questa «mancanza», questa lingua senza scarti, resa comune, non dall’automatismo meccanico da cui viene generata (un indizio in tal senso, è il rapporto, che resterà sempre problematico, tra Cocteau e gli esperimenti linguistici delle avanguardie), ma dalla sua materia «fatta di cifre, di note d’albergo, di panni sporchi»: quella materia che già nella narrazione di Le Potomak, nel 1919, gli aveva consentito di individuare l’origine del suo desiderio di scrittura in quelle «crisi in cui è lo stesso organismo che si vede cambiare». Ci riuscì solo in parte, servendosi di tutti i mezzi espressivi che gli passavano tra le mani, e di tutti i campi in cui gli fu concesso di transitare (il circo, la musica, la grafica, il cinema, lo sport).