il manifesto, giovedì 15 gennaio, 9 maggio 2004
Si tratta, anche qui, fin dove possibile, di sottrarre, di piegare, di produrre tagli nascosti, piccole lacerazioni nell’ordine del discorso e nelle concrezioni che si vanno via via formando, facendo scorrere, sotto l’apparenza di un olio ben tirato sulla tela (il neoclassicismo, il ritorno all’ordine: parole chiave per Cocteau), le ombre di quei «corpi dalle superfici nere» che avevano attirato lo sguardo di Walter Benjamin, spettatore dell’Orfeo portato in scena a Parigi, da Georges e Ludmilla Pitoëff, nel giugno 1926
Si tratta, anche qui, fin dove possibile, di sottrarre, di piegare, di produrre tagli nascosti, piccole lacerazioni nell’ordine del discorso e nelle concrezioni che si vanno via via formando, facendo scorrere, sotto l’apparenza di un olio ben tirato sulla tela (il neoclassicismo, il ritorno all’ordine: parole chiave per Cocteau), le ombre di quei «corpi dalle superfici nere» che avevano attirato lo sguardo di Walter Benjamin, spettatore dell’Orfeo portato in scena a Parigi, da Georges e Ludmilla Pitoëff, nel giugno 1926. Forse, si lascia andare Cocteau (richiamandosi implicitamente alle ben note parole del Tempo ritrovato: non ci sono libri da «inventare», ma solo segni da tradurre, per questo «il dovere e il compito di un grande scrittore sono quelli di essere un traduttore») si potrebbe arrivare ad immaginare una traduzione di Proust nelle forme elementari di una lingua «selvaggia» in cui «pagine e pagine si vedrebbero ridotte a una riga sola: Swé, ad esempio, significherebbe Dalla parte di Swann»... Raggiunto quello stato di vuota euforia, Cocteau riprese a scrivere e a disegnare senza sosta, confessando, in una dichiarazione fin troppo gridata per non apparire sospetta, di volersi dedicare, accantonando ogni altro «svago», esclusivamente a «letture di verbali, di matematica, di geometria, di testi specialistici».