La Stampa, martedì 17 febbraio, 9 maggio 2004
La Stampa, martedì 17 febbraio Fra i tanti capolavori di Indro Montanelli c’è anche il racconto dei funerali di Leo Longanesi
La Stampa, martedì 17 febbraio Fra i tanti capolavori di Indro Montanelli c’è anche il racconto dei funerali di Leo Longanesi. Ci andò con Giovanni Ansaldo e le cose andarono come devono andare ad un funerale, tra commozione, lungaggini, profumo d’incenso e qualche lacrima. Una volta risaliti in macchina, uno dei due buttò là una delle tante battute fulminanti del de cuius. Fu il segnale. Nel giro di qualche minuto, Montanelli e Ansaldo finirono sdraiati sui sedili. Un po’ per il gran ridere: un altro po’ per nascondersi alle prefiche che risalivano a piedi la stradina del cimitero. A noi figli e nipoti di Rocco, nel nostro piccolo, capita da venticinque anni. Non c’è cerimonia, commemorazione, anniversario che non cominci con gli occhi lucidi per Nereo e non finisca tra i lacrimoni dal gran ridere per il Paròn. Andrà così anche dopodomani a Trieste, quando festeggeremo il quarto di secolo della sua scomparsa. Prima i discorsi seri, ufficiali, le maiuscole adatte all’atmosfera del vecchio museo Revoltella. Poi, al primo aneddoto, le matte risate sino a notte alta in una delle sue osterie preferite su verso il Carso, non lontano dall’ospedale dove il 20 febbraio del ’79 la sua Maginot immunitaria si fece infilare dal contropiede di una banale broncopolmonite. Festeggeremo, certo. Perché il Paròn non abita soltanto l’albo d’oro del calcio nostrano, tra tanti di cui si è perduto persino il ricordo. Ma continua a fare un sacco di compagnia a chi ha avuto la ventura di conoscerlo, di frequentarlo, di averlo come allenatore o di inseguirlo tra lo spogliatoio e il pullman, «mi no parlo, gavé visto tuti, scrivé voialtri». Naturalmente poi parlava, oh se parlava. E parole come prestazione, determinazione, non parliamo di difesa alta o di centrocampo basso, insomma le moderne coordinate di questo calcio liofilizzato, erano fortunatamente di là da venire. Era, la sua, una vera e propria commedia dell’arte. Giocata sui toni del patriarcale e insieme del canzonatorio, del rispetto e dell’irriverenza, della serietà e del sarcasmo. Sul pullman che li aveva portati a Wembley, Coppa Campioni ’63, si alzò, vide bianchi come stracci anche Dino Sani e Cesare Maldini e tuonò «Fioi, chi ga paura no smonti» per poi ripiombare seduto di schianto. La risata che seguì cominciò a seppellire il Benfica. Un pomeriggio a San Siro, uno a zero per il Milan, non c’era verso di far tenere la posizione a Benetti. Perdeva palla e partivano i contropiede. «Romeo sta indrìo, Romeo sta indrìo» si sgolava invano il Paròn. Macché. Gli venne in mente il premio-partita: «Romeo sta indrìo, che perdémo un milion». Benetti si calmò all’istante. Ma Bigon e Sabadini, che intercettarono l’estremo appello, stramazzarono sul campo. Eppure, la sera che davanti a un fiasco all’Assassino, di punto in bianco raccontò della morte di Edmea, la sua prima moglie stroncata dalla tisi, non uno che non avesse gli occhi lucidi. Aveva il dono del passaggio di registro, il Paròn, non c’era corda che non sapesse pizzicare. Una formula di cui lui solo conosceva il dosaggio, e il cui segreto si è portato nella tomba. C’è sempre un mazzo di fiori freschi là a metà collina, al campo terzo del cimitero di Sant’Anna. Sono della siora Maria, 92 anni impavidi, sfrontati persino, di Bruno e Tito, i figli che ne coltivano il ricordo, di triestini che lo conobbero. Ma anche, di tanto in tanto, dei suoi fedelissimi, di Scagnellato e Maldini, di David e Rivera. Nereo Rocco è l’uomo che ha inventato lo spogliatoio. Non più uno stanzone dove cambiarsi e lavarsi, ma l’habitat di una squadra che si rispetti. Lì il Paròn annusava gli umori, metteva pace, attizzava baruffe. Lì praticava il suo nonnismo bonario, i diritti dei vecchi e i doveri dei giovani, dei «muli», lì preparava il rito domenicale tra una confessione e uno sfottò, un’osservazione tattica e un gavettone. Ai tempi d’oro dell’Appiani, ma ancora al Filadelfia, lì officiava anche la cerimonia della divisione dei premi, ufficialmente delegata al capitano: «Tuti sti soldi a quel mona, povera Italia. Fortuna che mi son de Francesco Giuseppe». Vinca il migliore. «Ciò, sperémo de no». Anche per questa battuta, degna davvero del miglior Longanesi, Rocco è passato alla storia come caposcuola dei difensivisti. Dei realisti, semmai. Perché quando guidava Triestina, Padova e Torino il motto era sì, primo non prenderle: ma sempre schierando tre punte come Mariani-Brighenti-Stivanello, o Meroni-Combin-Facchin, ispirate da mezzeali offensive come Rosa a Padova e Moschino a Torino. Per non parlare del suo primo Milan, Mora-Sani-Altafini-Rivera-Barison; o del secondo, Hamrin-Lodetti-Sormani-Rivera-Prati. Aveva un debole per i «manzi», questo sì. Ma una volta accertato che il temperamento di Rosato era lo stesso di Blason, o di Azzini, anche i magrolini erano i benvenuti. Come la farfalla Meroni, come l’uccellino Hamrin che ebbe in gioventù a Padova e rivolle in tarda età al Milan. «Quante monade. Quanti olandesi dal lunedì al sabato: e la domenica tuti quanti indrìo». Lo disse la prima volta nel giardino di casa sua in via Angeli, dove Gianni Minà sotto il pergolato e davanti alle telecamere lo aveva messo di fronte a Brera per un faccia a faccia sui massimi sistemi calcistici. Da quel filmato, una reliquia, manca la battuta finale dopo un pomeriggio di chiacchiere e bevute. A Minà che lo ringraziava per l’ospitalità, il Paròn mostrò con un gesto desolato il panorama di bottiglie: «Grazie a voialtri. Ma me gavé fato un dano de mezzo milion». Gigi Garanzini