la Repubblica, martedì 17 febbraio, 9 maggio 2004
la Repubblica, martedì 17 febbraio Abbiamo assistito in tutta Europa e nel Medio Oriente a manifestazioni di protesta contro il progetto del governo francese di proibire alle ragazze musulmane l’uso del velo nelle scuole pubbliche
la Repubblica, martedì 17 febbraio Abbiamo assistito in tutta Europa e nel Medio Oriente a manifestazioni di protesta contro il progetto del governo francese di proibire alle ragazze musulmane l’uso del velo nelle scuole pubbliche. Questo divieto va a inserirsi nella più ampia battaglia combattuta in tutta Europa per l’identità culturale del continente. La Francia ed altri paesi europei ospitano minoranze musulmane che costituiscono fino al 10 per cento delle loro popolazioni, minoranze politicamente sempre più attive. I musulmani europei sono i primi responsabili dell’aumento degli episodi antisemiti registrato negli ultimi tre anni e le cronache del conflitto israelo-palestinese fornite dai media portano la decisa impronta della loro percezione della realtà. Questo cambiamento demografico si è già fatto sentire in politica estera: la posizione francese contraria alla guerra in Iraq e, più in generale, alla politica estera Usa, bada in parte ad accondiscendere l’opinione pubblica musulmana. Ma se in pubblico il governo francese mostra di sostenere la causa araba, in privato insieme ad altri governi europei si preoccupa degli sviluppi futuri. L’11 settembre ha evidenziato che in gran parte dell’Europa l’assimilazione dà scarsi frutti. Capi terroristi come Mohamed Atta non sono stati persuasi al fondamentalismo in Arabia Saudita o in Afghanistan, ma in Europa occidentale. Rivelatore a questo proposito è un episodio verificatosi poco dopo l’attacco al World Trade Center, quando una folla di francesi nord africani in gran parte di seconda e terza generazione ha fischiato la Marsigliese durante una partita di calcio tra le nazionali francese e algerina, inneggiando ad Osama bin Laden. Musulmani britannici della terza generazione sono partiti per la Cisgiordania pronti ad affrontare il martirio in operazioni suicide. L’approccio degli europei all’assimilazione è di vario genere. I tedeschi per molti anni non hanno neppure tentato di affrontare il problema: non più tardi del 2000, prima della riforma della legge sulla cittadinanza, un turco di terza generazione cresciuto in Germania che non parlava turco incontrava spesso maggiori ostacoli ad ottenere la cittadinanza tedesca rispetto ad un oriundo tedesco immigrato dalla Russia che non parlava una parola di tedesco. Lo stato tedesco inoltre riscuote tasse di culto per conto delle chiese cattolica e protestante. Il problema in Germania come in Olanda è se aggiungere o meno un pilastro islamico a quelli cristiani esistenti, riconoscendo ad esso poteri di controllo sull’istruzione e altri temi. Una simile politica tenderebbe, è ovvio, a preservare le differenze culturali nel tempo piuttosto che a stemperarle. I francesi al contrario hanno sempre accettato il principio dell’assimilazione. La cittadinanza francese, come quella americana, non è basata su discriminanti etniche ma è universale. La tradizione repubblicana riconosce solo i diritti degli individui, non dei gruppi e resta fedele a principi laici. Gli insegnanti francesi, in particolare, sono eredi di una tradizione anticlericale risalente alla rivoluzione francese ed hanno sempre guardato con sospetto alle espressioni di religiosità nelle scuole pubbliche. La nuova politica francese sul velo islamico non va quindi intesa come una forma di assimilazione forzata. In precedenza era lasciato all’arbitrio dei singoli istituti scolastici e dei singoli insegnanti se proibire o meno alle alunne di indossarlo. La nuova politica li scarica di questa responsabilità, stabilendo una regola nazionale. L’efficacia del divieto pone un delicato problema tattico. Esso potrebbe rivelarsi controproducente spingendo i musulmani osservanti ad abbandonare per reazione il sistema scolastico pubblico e a frequentare scuole islamiche. Tuttavia l’obiettivo ultimo di questa politica non è distruggere la libertà religiosa ma promuovere l’assimilazione, una linea che dovrebbe risultare gradita ai nemici del multiculturalismo in America. Gli europei hanno iniziato solo di recente a confrontarsi con il problema dell’assimilazione e sono ancora soggetti al gravame di un approccio politically correct al tema dell’immigrazione. Nel 2001 i cristiano democratici tedeschi suggerirono timidamente il concetto di Leitkultur, o ”cultura dominante”, il principio in base al quale la Germania si diceva pronta ad accogliere gli immigrati ma solo se questi ultimi fossero stati disposti ad accettare determinati valori culturali tedeschi. L’idea venne immediatamente bollata come razzista e mai più riproposta. Esiste una forte correlazione in Europa tra immigrati e criminalità come, negli Usa, tra etnia e criminalità, ma i politici tradizionali sono stati restii a riconoscere questo nesso. Si spiega così la fulminea ascesa del politico olandese Pim Fortuyn, omossessuale dichiarato, che per primo sostenne la necessità di limitare l’immigrazione musulmana in quanto i musulmani non si adeguavano alla tradizionale tolleranza olandese. Solo con l’esame di coscienza nazionale seguito al suo assassinio nel 2002, il dibattito sul nesso immigrazione-criminalità in Olanda divenne più aperto. E solo quando Jean Marie Le Pen, leader del partito estremista di destra Fronte nazionale, si piazzò secondo dietro Jacques Chirac alle presidenziali francesi del 2002, il governo iniziò a fare sul serio nei confronti della criminalità e dell’immigrazione, nominando un ministro dell’interno inflessibile nella persona di Nicolas Sarkozy. La politica del velo rientra semplicemente in questa nuova linea. Il successo finale dell’assimilazione dipende non solo dalle scelte politiche ma anche dalle caratteristiche culturali del gruppo di immigrati che ne è destinatario. Gli europei sostengono, a ragione, di incontrare maggiori problemi con le loro popolazioni immigrate musulmane di quanti ne creino agli americani gli immigrati ispanici. La rapidità con cui la seconda o terza generazione di un gruppo di immigrati si assimila alla popolazione autoctona ha molta attinenza con la percentuale di matrimoni misti riferita a quel gruppo, la quale è a sua volta sottoprodotto del livello di controllo che le famiglie immigrate riescono ad esercitare sulla sessualità delle figlie femmine. Negli Usa le percentuali di matrimoni misti sono saldamente correlate sia all’assimilazione che ad una mobilità verso livelli socioeconomici superiori realizzate da parte di gruppi etnici e razziali diversi. L’individualismo in seno alla famiglia - il diritto cioè di sposare chi si vuole - è la madre di ogni individualismo ed è proprio la negazione di questo diritto che consente la trasmissione della struttura e della cultura sociale tradizionali da una generazione all’altra. I musulmani tradizionalisti sono quindi più astuti di quanto si pensi nell’insistere a marchiare le loro figlie con il velo che ne segnala l’indisponibilità sessuale nei confronti di estranei al gruppo. Le stesse giovani decise a portare il velo come simbolo della propria identità non comprendono quale minaccia esso rappresenti a lungo termine per la loro libertà individuale. Gli americani, guardando all’Europa, dovrebbero rallegrarsi di aver reso il loro paese un crogiolo di assimilazione. Ma come indicano gli autori di un nuovo saggio sul tema, edito da Tamar Jacoby, non bisogna dare l’assimilazione per scontata. Durante la grande ondata immigratoria della fine del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo, le élite autoctone, in larga parte protestanti, cercarono deliberatamente di sfruttare il sistema scolastico pubblico per assimilare i nuovi arrivati dal sud e dall’est europeo ai propri valori culturali. Gli Anni ’60 e ’70 diedero origine al multiculturalismo, al programma contro le discriminazioni, e al bilinguismo, che tentarono di invertire la rotta sul tema assimilazione. Gli Anni ’90 sono stati teatro di una reazione contro questo genere di politica fautrice di identità distinte, con l’approvazione in California del progetto di legge numero 227, che cancellò d’un colpo i programmi bilingui nelle scuole pubbliche. Rappresentò la versione americana del veto al velo islamico, ed ebbe successo perché sostenuta da un gran numero degli stessi genitori ispanici, impensieriti che i loro figli fossero destinati a restar prigionieri di un ghetto linguistico spagnolo. in questo contesto che va valutata la recente proposta del presidente Bush di concedere permessi di lavoro agli immigrati clandestini. Il progetto non incontra l’approvazione di molti americani perché premia chi viola la legge. In effetti è così. Dovremmo, è vero, far uso dei controlli recentemente rafforzati per costringere i migranti ad utilizzare esclusivamente canali legali, ma dal momento che non siamo intenzionati ad espellere i quasi sette milioni di potenziali destinatari di questo programma, dobbiamo riflettere su quali siano le politiche che possono più rapidamente veicolarli all’integrazione nella società tradizionale americana. L’ingresso illegale nel paese rappresenta per molti clandestini l’unico reato di rilievo mai commesso e quanto più rapidamente essi riusciranno a normalizzare la propria condizione, tanto più velocemente i loro figli saranno destinati a inserirsi a pieno titolo nella vita americana. Non è esagerato affermare che l’assimilazione degli immigrati di diverse culture rappresenterà la sfida sociale più importante che le democrazie sviluppate si troveranno ad affrontare nei decenni a venire. Dato che il tasso di fertilità delle popolazioni autoctone è insufficiente a garantire il ricambio generazionale, alte quote di immigrazione sono divenute necessarie per finanziare non solo gli attuali livelli di vita, ma le future prestazioni di sicurezza sociale. Modelli d’immigrazione divergenti purtroppo non faranno che approfondire il dissenso emerso tra America ed Europa in politica estera. Noi americani non siamo in grado di influenzare più di tanto la politica europea ma possiamo intraprendere iniziative affinché i problemi dell’Europa non diventino i nostri. Francis Fukuyama