Corriere della Sera, martedì 17 febbraio, 9 maggio 2004
Corriere della Sera, martedì 17 febbraio Nella saletta insonorizzata la luce si riaccende dopo due ore e sei minuti
Corriere della Sera, martedì 17 febbraio Nella saletta insonorizzata la luce si riaccende dopo due ore e sei minuti. Non siamo che una dozzina (io il solo giornalista), consapevoli di un privilegio: per invito di Mel Gibson e del produttore Steve McEveety della Icon Films il ”Corriere” è il primo giornale in Europa a vedere sullo schermo la cassetta appena giunta da Los Angeles con la copia finalmente definitiva. Quella stessa che mercoledì prossimo sarà in duemila sale americane, in cinquecento inglesi, in altrettante australiane, quella la cui attesa ha mandato in corto circuito tutti i siti Internet e che nella prima settimana recupererà (i book- maker lo danno per certo) i 30 milioni di dollari della produzione. Il Papa stesso non ha visto che una versione provvisoria, mancante tra l’altro di parte delle musiche. Ma sì, stasera siamo i primi, gli italiani dovranno attendere sino al 7 aprile, i francesi e gli spagnoli addirittura sino a giugno. Quando finiscono di scorrere i titoli di coda, dove i nomi americani si alternano a quelli italiani, dove i ringraziamenti al Comune di Matera si affiancano a quelli per teologi e specialisti di lingue antiche, dove Rosalinda, la figlia di Celentano (il diavolo) sta accanto a un’ebrea romena (la Madonna), quando il tecnico abbassa la leva che ridà la luce, nella saletta continua il silenzio. Due donne piangono, quietamente, senza singhiozzi; il monsignore in clergyman che ho accanto è pallidissimo, gli occhi chiusi; il giovane segretario tormenta nervoso un rosario; un timido, solitario inizio di applauso si spegne subito, nell’imbarazzo. Per molti, lunghissimi minuti nessuno si alza, nessuno si muove, nessuno parla. Dunque, quanto ci annunciavano era vero: The Passion of the Christ ha colpito, l’effetto che Gibson voleva si è realizzato in noi, prime cavie. Per quanto vale, io stesso sono sconcertato e muto: per anni ho passato al vaglio, una per una, le parole del greco con cui gli evangelisti narrano quegli eventi, nessuna minuzia storica di quelle 12 ore a Gerusalemme mi è sconosciuta, ne ho tratto un libro di quattrocento pagine che Gibson stesso non ha ignorato. So tutto. O, meglio, scopro adesso che credevo di sapere: tutto cambia se quelle parole si traducono in immagini di una tale potenza da trasformarle in carne e in sangue, in segni graffianti di amore e di odio. La Scommessa. Mel lo ha detto con l’orgoglio unito all’umiltà, con il pragmatismo impastato al misticismo che forma in lui un miscuglio singolare: «Se quest’opera dovesse fallire, per cinquant’anni non ci sarà futuro per il film religioso. Qui dentro abbiamo buttato il meglio: soldi quanti ne occorrevano, prestigio, tempo, rigore, carisma di grandi attori, scienza degli eruditi, ispirazioni dei mistici, esperienza, tecnica d’avanguardia. Ci abbiamo buttato, soprattutto, la nostra certezza che valeva la pena, che ciò che successe in quelle ore riguarda ogni uomo. Con questo Ebreo avremo a che fare per sempre, tutti, dopo la morte. Se non la spuntiamo noi, chi potrà farcela? Ma la spunteremo, ne sono certo: il nostro lavoro è stato accompagnato da troppi segni che me lo confermano». In effetti sul set è avvenuto assai più di quanto non si sappia, molto resterà nel segreto delle coscienze: conversioni, liberazioni dalle droghe, riconciliazioni tra nemici, abbandono di legami adulterini, apparizioni di personaggi misteriosi, esplosioni di energie straordinarie, figuranti lucani che si inginocchiavano al passaggio dello straordinario Caviezel- Gesù, persino due folgori, una delle quali ha colpito la croce, e che non hanno ferito alcuno. E, poi, coincidenze lette come segni: la Madonna con il volto dell’attrice ebrea a nome Morgenstern che, lo si è notato solo dopo, è, in tedesco, la Stella Mattutina delle litanie del rosario. Gibson si è ricordato del monito del beato Angelico: «Per dipingere il Cristo, bisogna vivere con il Cristo». Il clima, tra i Sassi di Matera e gli studi di Cinecittà, sembra essere stato quello delle sacre rappresentazioni medioevali, dei cortei dei flagellanti davanti alle reliquie dei martiri. Un Carro di Tespi del Trecento, per il quale, ogni sera, un prete in talare nera, quella con la lunga fila di bottoni, celebrava una messa al campo, in latino, secondo il rituale di san Pio V. Proprio qui, in effetti, è la ragione vera della decisione di far parlare gli ebrei nella loro lingua popolare, l’aramaico, e i romani in un latino basso, da militari, che ferisce le orecchie di noi, vecchi liceali, abituati alle raffinatezze ciceroniane. Gibson, cattolico amante della Tradizione, è coriaceo assertore della dottrina ribadita al Concilio di Trento: la Messa è anche pasto fraterno ma è innanzitutto sacrificio di Gesù, rinnovazione incruenta della Passione. Questo è ciò che importa, non è il «capire le parole», come vogliono i nuovi liturgisti di cui Mel sbeffeggia la superficialità che gli appare blasfema. Il valore redentivo degli atti e dei gesti che hanno il vertice sul Calvario non ha bisogno di espressioni che chiunque possa capire. Questo film, per il suo autore, è una Messa: che, dunque, sia in una lingua oscura, com’è stata per tanti secoli. Se la mente non comprenderà, tanto meglio, ciò che conta è che il cuore capisca che tutto quel che è avvenuto ci redime dal peccato e ci apre le porte della salvezza. Proprio come ricorda la profezia di Isaia sul «Servo di Jahvé» che, a tutto schermo, è messa come prologo all’intera pellicola. Il prodigio, comunque, mi è sembrato verificarsi: dopo un po’, si abbandona la lettura dei sottotitoli per entrare, senza distrazioni, nelle scene - terribili e meravigliose - che bastano a se stesse. La qualità. Sul piano tecnico, l’opera appare di una qualità altissima, tanto che i precedenti film su Gesù potranno sembrare ridotti a parenti poveri e arcaici: in Gibson, luci sapienti, fotografia magistrale, costumi straordinari, scenografie scabre e, quando necessarie, sontuose, trucco di incredibile efficacia, recitazione di grandi professionisti, sorvegliati da un regista che è anche un loro illustre collega. Soprattutto, effetti speciali talmente mirabolanti che, come ci diceva Enzo Sisti, il produttore esecutivo, resteranno segreti, a conferma dell’enigma dell’opera, dove la tecnica vuole essere a servizio della fede. Una fede nella versione più cattolica - non a caso il compiacimento del Papa e di tanti cardinali, Ratzinger non escluso - di cui The Passion è un manifesto che gronda simboli che solo un occhio esercitato discerne in pieno. Occorrerebbe un libro (due, in effetti, sono in preparazione) per aiutare lo spettatore a capire. In sintesi estrema, la «cattolicità» radicale del film sta innanzitutto nel rifiuto di ogni demitizzazione, nel prendere i vangeli come cronache precise: le cose, ci viene detto, sono andate così, proprio come la Scrittura le descrive. Il cattolicesimo sta, poi, nel riconoscimento della divinità di Gesù che convive con la sua piena umanità. Una divinità che erompe, drammaticamente, nella sovrumana capacità di quel corpo di subire una quantità di dolore come mai alcuno né prima né dopo, in espiazione di tutto il peccato del mondo. Ma la «cattolicità» radicale sta anche nell’aspetto «eucaristico», riaffermato nella sua materialità: il sangue della Passione è intrecciato di continuo al vino della Messa, la carne martoriata del corpus Christi al pane consacrato. E sta, pure, nel tono fortemente mariano: la Madre e il Diavolo (che è femmina o, forse, androgino) sono onnipresenti, l’una con il suo dolore silenzioso, l’altro - o l’altra - con il suo compiacimento maligno. Da Anna Caterina Emmerich, la veggente stigmatizzata, Gibson ha preso intuizioni straordinarie: Claudia Procula, la moglie di Pilato, che offre, piangendo, a Maria i panni per raccogliere il sangue del Figlio è tra le scene di maggior delicatezza in un film che, più che violento, è brutale. Come brutale fu, appunto, la Passione. Il Pietro disperato dopo il rinnegamento, si getta ai piedi della Vergine per ottenere perdono. Credo, comunque, che l’importanza, anche teologica, attribuita alla Madonna nonchè l’eucarestia, non spiritualizzata, non ridotta a «memoriale» ma vista nel modo più materiale, dunque cattolico (la transustanziazione), creeranno qualche disagio nelle chiese protestanti americane che, senza avere visto il film, già si sono organizzate per favorirne la diffusione. Se al martirio sono dedicate due ore, due minuti bastano per ricordare che non fu quella l’ultima parola. Dal venerdì santo alla domenica di Pasqua, alla risurrezione, che Gibson ha risolto accogliendo una particolare lettura delle parole di Giovanni: uno «svuotamento» del lenzuolo funerario, lasciando un segno sufficiente per «vedere e credere» che il suppliziato ha trionfato della morte. Antisemitismo o, almeno, antigiudaismo? Non scherziamo con parole troppo serie. A visione effettuata, penso abbiano ragione i non pochi, e autorevoli, ebrei americani che ammoniscono i loro correligionari di non condannare prima di vedere. Chiarissimo è, nel film, che ciò che grava sul Cristo e lo riduce in quello stato non è la colpa di questo o di quello, bensì tutto il peccato di tutti gli uomini, nessuno escluso. All’ostinazione nel chiedere la crocifissione da parte di Caifa (quel sadduceo collaborazionista che non rappresentava affatto il popolo ebreo, da cui era anzi detestato, il Talmud su di lui e sul suocero Anna ha parole terribili), fa più che abbondante contrappeso il sadismo inaudito dei carnefici romani; alle viltà politiche di Pilato che lo portano a violentare la sua coscienza, si oppone il coraggio del sinedrita - episodio aggiunto dal regista - che affronta il Sommo Sacerdote gridandogli che quel processo è illegale. E non è forse ebreo il Giovanni che sorregge la Madre, non è ebrea la pietosa Veronica, non è ebreo l’impetuoso Simone di Cirene, non sono ebree le donne di Gerusalemme che gridano la loro disperazione, non è ebreo Pietro che, perdonato, morirà per il Maestro? All’inizio del film, prima che il dramma si scateni, la Maddalena chiede, angosciata, alla Vergine: «Perché questa notte è così diversa da ogni altra?». «Perché - risponde Maria - tutti gli uomini erano schiavi e ora non lo saranno più». Tutti, ma proprio tutti: «giudei o gentili» che siano. Quest’opera, dice Mel Gibson amareggiato da aggressioni preventive, vuol riproporre il messaggio di un Dio che è Amore. E che Amore sarebbe se escludesse qualcuno? Vittorio Messori