CorrierEconomia, lunedì 23 febbraio, 9 maggio 2004
CorrierEconomia, lunedì 23 febbraio Dichiarare che l’Italia è in declino è tesi comodissima alla moda, della quale si compiace la politica e un giornalismo fatto di molti pressappoco
CorrierEconomia, lunedì 23 febbraio Dichiarare che l’Italia è in declino è tesi comodissima alla moda, della quale si compiace la politica e un giornalismo fatto di molti pressappoco. Comunque mai uno a rammentare che l’Italia ha vissuto ben altri declini. Ed è peccato perché sia il declino economico di Roma antica sia quello del Seicento potrebbero dirci molto sui nostri atavici difetti d’oggi, non solo economici. L’Impero Romano era un formidabile sistema col quale le esazioni erano ridistribuite per mantenere le legioni, fare strade e sfamare le plebi urbane ma pure svagarle. E Roma era perciò nel dovere continuo di fare conquiste come le economie oggi devono far crescere il Pil. Tasse e schiavi di sempre nuovi popoli vinti erano il modo per provvedere a eserciti sempre più grandi e distanti da Roma, richiesti dalle costose conquiste. Giacché la produttività del lavoro era stazionaria occorrevano guerre e reiterate rapine. Perciò quando l’Impero divenne troppo grande per poter crescere, i suoi oneri militari rovinarono l’economia. Lattanzio accusava Diocleziano di aver quadruplicato le forze armate ed espanso troppo i posti statali. Per inevitabile male ci saranno, scriveva, «più governatori che governati». E infatti nel Tardo Impero le tasse raggiunsero altezze tali che la terra fu abbandonata e la carestia divenne cronica. Le legioni, ovvero la più potente forza produttiva di quell’economia di conquista, si ridussero a ben poca cosa. A Valente sconfitto ad Adrianopoli nel 378 dai Goti restava un esercito di soli 13 mila legionari, e di qualità pessima, tanto che la statura per l’arruolamento degli italici era stata abbassata pochi anni prima. Ma i furti degli alti burocrati continuarono; mentre il Welfare romano, cioè le provvidenze per le plebi urbane, s’impoverivano. Così se lo Stato svaniva le fortune di pochi seguitavano. Le ville dei proprietari terrieri evolvettero a veri e propri borghi con ippodromi e templi, auro ardens totadomus. Crollò ogni centro di redistribuzione statuale, ma non la vita rurale e le forme di proprietà e il colonato vilissimus. E iniziò il Medio Evo. In quanti oggi fanno dipendere il declino dell’Italia dal furto si risvegliano dunque certamente anche degli atavismi. Ma questa da sola resterebbe una spiegazione imprecisa. Più che Di Pietro verrebbe semmai da dar ragione a Bossi: la vera origine del male di Roma Antica era uno Stato divorante. E il nostro stato sociale ha molto oggi delle distribuzioni di grano alle plebi e le tv dei circhi e dei mimi di allora. Ma essendo gli italiani autentici artisti del declino quello romano non fu il solo. All’inizio del Seicento l’Italia era tra le regioni più sviluppate d’Europa; alla fine del secolo era un’area depressa, troppo popolata per un’industria ormai vinta. Il reddito pro capite diminuì tra il 1620 e il 1690, poi si riprese, ma per due secoli l’Italia restò un’economia arretrata. La sua precedente prosperità era dipesa negli anni d’oro da massicce esportazione di manufatti tessili, e di servizi invisibili come quelli bancari e di navigazione. Venezia esportava 25 mila vestiti di lana l’anno verso i porti mediterranei nei primi anni del Seicento. Un secolo e l’ambasciatore veneziano notava come ne esportasse solo 100. Il disastro si ripeté a Genova o Milano. I prezzi dei concorrenti europei erano più bassi. Eppure i beni italiani erano migliori. Vincolati dalle corporazione gli italiani persistevano a produrre secondo i vecchi metodi. Ma i panni inglesi forse più leggeri, ma più colorati, soprattutto costavano molto meno. Corporazioni, tasse e salari più alti rendevano i costi per unità di prodotto degli italiani fuori mercato. Panni, navi o banche, fu il declino. Prevalse compiacimento meschino per il passato e la tendenza ad abbandonare i vecchi centri urbani per quelli più piccoli dove era più facile evadere tasse e corporazioni. Chi rifletta ai meschini intrecci tra banche e imprese oggi o alla parte recitata dai sindacati, sa ora dove queste insanie origino la loro pervicacia. Sono il residuo frutto venefico di questo declino seicentesco. Roma e uno Stato di troppe tasse e di pochi: ecco il male del primo declino; lacci e laccioli di corporazioni ovunque e di rendite finte morali ed invece indegne; ecco l’altro gran difetto. Sono a ben vedere gli stessi guai da cui s’originano oggi i nostri rischi di declino. Si badi bene: rischi, perché di declino si dovrebbe parlare solo in presenza di un calo prolungato del reddito pro capite. Da questi rischi solo il liberismo più libertario può guarirci; giacché esso confligge con tasse e spesa statale e i beceri privilegi di corporazioni innumeri che si fingono morali. Geminello Alvi