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 2004  maggio 09 Domenica calendario

la Repubblica, martedì 24 febbraio Nell’antichità ci sono state due forme di comunità politica: la città-stato e la Monarchia imperiale

la Repubblica, martedì 24 febbraio Nell’antichità ci sono state due forme di comunità politica: la città-stato e la Monarchia imperiale. Ma nessuna città-stato è diventata una Monarchia imperiale: tranne Roma. La metamorfosi è prodigiosa e folgorante. Prodigiosa perché, alla fine della lotta mortale con Annibale, Roma sembra stremata, esausta. Invece è proprio di qui che parte la conquista del Mediterraneo. Dopo esser passata in meno di due secoli, dal 470 al 272 a.C., dal controllo del Lazio a quello della penisola, Roma acquista in poco più di altri due secoli (272-52 a.C.) il dominio dell’intero bacino mediterraneo, con estensioni nell’entroterra, sino all’Eufrate da una parte, sino alla Gallia atlantica e alla Britannia dall’altra. Qual è il segreto di questo prodigio? Certo, c’è la spinta demografica. Ma la ragione fondamentale sta nella forza propulsiva della costituzione politico-militare romana. Roma è una città basata sostanzialmente sulla guerra. una città-esercito, la cui struttura militare coincide con quella politica. Ambedue sono orientate alla guerra, alla conquista di terre, che consente - in ultima analisi - di contemperare gli interessi dell’aristocrazia con quelli della plebe, gli interessi del Senato con quelli del popolo romano. In questa espansione si crea, pur attraverso conflitti di classe violenti, una solidarietà patriottica che non ha riscontro in nessuna altra città. La guerra, come è stato detto, era non soltanto il motore dello sviluppo, ma anche il suo contesto vitale. Per essa Roma aveva costruito uno strumento militare formidabile: la legione. La grandezza di Roma, però, non è solo il risultato del successo militare, ma soprattutto della capacità di tenere insieme un Impero così rapidamente conquistato. Se si fosse limitata al successo militare Roma avrebbe eguagliato i grandi Imperi orientali: degli assiri, dei persiani. Quelli durarono molto meno e lasciarono solo grandi tracce di odio. Quando cadde l’assira Ninive il mondo esultò: era scomparso l’Impero del male. Quando cadde Roma, il mondo ne fu smarrito. Roma lasciò una traccia incomparabile rispetto a quelle potenze effimere.  dunque il successo dell’integrazione politica che spiega la grandezza di Roma, molto più della sua potenza militare. Il dominio politico romano non mancò certo di brutalità. Ma tra quelli dell’antichità e di molti altri dei secoli successivi, fu di gran lunga il più capace di suscitare consensi, di gettare radici, di lasciare segni: nel paesaggio, nella cultura, nella lingua, nel diritto delle nazioni. Secoli di riflessione storica si sono concentrati sull’impresa militare, politica, amministrativa e culturale di Roma. Per esaltarla e anche per denigrarla. Un’attenzione minore, anche se via via crescente ai tempi nostri, si è rivolta all’economia romana. Ciò è dovuto forse - diciamolo sbrigativamente - al fatto che, mentre il sistema politico romano fu uno straordinario successo, il sistema economico romano fu un fallimento. Mentre il primo gettò fondamenta durevoli nella storia d’Europa, il secondo restò sempre in condizioni di precarietà, per entrare in uno stato di crisi subito dopo la fine dell’età della conquista. Naturalmente si tratta di una sentenza retroattiva: nel senso che essa è formulata con criteri propri della nostra modernità. Nel mondo romano, come del resto in tutto il mondo antico, l’economia non costituiva un sistema autonomo, chiaramente distinguibile dal sistema politico. Non era stato identificato e configurato come tale, in un modello. Come nel corpo umano il sangue circolava prima che Harvey lo rappresentasse nel suo modello, così l’economia esisteva e funzionava nel mondo antico, senza essere riconosciuta come sistema relativamente autonomo (la metafora del sangue è appropriata, perché proprio a quel modello di circolazione si ispirò il medico di Corte di Luigi XV, il dottor Quesnay, per raffigurare il sistema economico nel suo Tableau). Come dice Aldo Schiavone l’economia degli antichi era una «struttura nascosta», che non stava in piedi da sola. I contemporanei non la percepivano come una realtà da governare, come noi ”moderni”, che non solo l’abbiamo districata dalle altre realtà sociali, ma ne abbiamo fatto addirittura la struttura dominante della società. Giudicandolo con i nostri criteri di ”moderni”, il modello economico romano della maturità è stato rappresentato dagli storici dell’economia romana in modi che variano tra due estremi: da quello ”primitivista” a quello ”modernista”. Ci sono quelli (come Rodbertus) che l’hanno considerata una economia arcaica, tutta racchiusa in forme di produzione e di consumo autosufficienti, praticamente prive di una rete significativa di scambi; e quelli, come Rostovcev e Mommsen, che l’hanno raffigurata come una vera e propria economia capitalistica ante litteram: un’anticipazione delle nostre economie di mercato. La critica moderna ha fatto giustizia di queste rappresentazioni estreme, distinguendo anzitutto tra le epoche dell’economia romana. Abbiamo visto come neppure il modello patriarcale si possa considerare un’economia chiusa. E vedremo ora come quello che chiameremo modello della Repubblica imperiale, pur evolvendo verso forme mercantili incomparabilmente più sviluppate, sia restato ben al di qua della soglia di un capitalismo moderno. La formula ”Repubblica imperiale” è dello storico francese Claude Nicolet. Essa abbraccia i secoli della conquista e della stabilizzazione dell’Impero, grosso modo dal II a.C. al II d. C., scavalcando la partizione politica convenzionale tra Repubblica e Impero, che dal punto di vista dell’evoluzione dell’economia ha scarso significato. Se per questo periodo si può parlare di ”capitalismo”, si deve subito aggiungere che si tratta di un capitalismo mercantilistico abortito. Al capitalismo i romani si avvicinarono più di tutte le potenze del mondo antico e da più di un punto di vista. Ma restarono ben al di qua di una soglia critica. Per rendercene conto dobbiamo partire dalle grandi trasformazioni provocate dalla folgorante conquista mediterranea. è infatti in quel momento storico che si crearono condizioni di accumulazioni tali, potenzialmente, da formare una economia-mondo di tipo capitalistico: la prima nella storia. Ciò che era avvenuto su piccola scala e parzialmente nelle città greche e fenicie e nella stessa Roma dei Tarquini, l’affermazione di una economia mercantilistica, avrebbe potuto verificarsi sulla scala di un grande Impero. Perché non lo fu? L’affermazione di Roma come superpotenza sconvolge lo scenario del mondo antico. Cerchiamo anzitutto di misurare le proporzioni di questo brusco mutamento di scena. Da una popolazione di 10 milioni su una superficie di 150 mila chilometri quadrati alla fine delle guerre puniche, il dominio romano passa, all’inizio del I secolo della nostra era, a una popolazione di 55 milioni su una superficie di 3,3 milioni di chilometri quadrati, lungo un asse di 5 mila chilometri che corre dalle coste della Britannia alle pendici del Caucaso. Fermiamo l’obiettivo sulla Repubblica imperiale a metà del suo percorso, al tempo di Augusto, al momento in cui la conquista si sta esaurendo: quando svaniscono i sogni, pure accarezzati dal primo imperatore, di portare le aquile di Roma alle sorgenti del Nilo, lungo la pista vanamente tentata dalle carovane del console Gallo, di soggiogare l’indomabile Germania; di raggiungere attraverso la Persia l’India delle perle e il misterioso paese della seta, la terra dei Seres. L’Impero raggiunge allora i suoi confini storici. Entro quello spazio esso sembra anche giunto ai limiti del tempo. Impero senza fine, lo chiamerà Virgilio. è il più grande Impero dei suoi tempi, non superato dai suoi contemporanei, la Persia l’India e la Cina. Resterà la maggiore unità economica della storia dell’Occidente conservando il suo primato fino al XIX secolo. Ha una densità, rispetto alle nostre misure, assai bassa: 17 persone in media per chilometro quadrato. I tassi di natalità e mortalità sono elevati, la vita media non supera i 20 anni: un Impero di giovanissimi. Solo un decimo della popolazione vive nelle sue 3 mila città, un ventesimo nelle 4 più grandi (Roma, Cartagine, Antiochia e Alessandria) e un milione nella capitale. Secondo calcoli eroicamente approssimativi il prodotto interno lordo di quell’Impero, a quell’ epoca, si sarebbe aggirato attorno ai 20 miliardi di sesterzi, che ancora più eroicamente ragguaglieremo a 20 miliardi di dollari di oggi. Certo, il confronto è più che grossolano, data l’incomparabilità dei poteri d’acquisto tra strutture economiche così difformi! E tuttavia ci serve a stendere questo ”trasparente” sulle nostre carte. Ci accorgiamo così che, con un prodotto pro capite di 375 dollari, l’Impero romano si poneva sulla media dei paesi sottosviluppati alla metà del secolo XX, superando però quelli allora più poveri, come l’India: l’India delle perle. Dunque, una economia povera, nel complesso, certo, ma con vertiginose concentrazioni di ricchezze, proprio come l’India. Il reddito annuale del solo imperatore stava nell’ordine di 15 milioni di dollari e cioè lo 0,1 per cento del Pil. Quello dei 500 senatori presi insieme ammontava a 100 milioni di dollari, pari allo 0,5 per cento del Pil. L’élite economica dell’Impero, e cioè il 3 per cento dei percettori di redditi, godeva del 25 per cento del Pil. Se pensiamo che oggi il 45 per cento del reddito mondiale, mille volte più grande di quello romano, è nelle mani del 10 per cento della popolazione mondiale, dobbiamo dare, dell’iniquità romana, un giudizio meno scandaloso. Giorgio Ruffolo (da Quando l’Italia era una superpotenza. Il ferro di Roma e l’oro dei mercanti, Einaudi)