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 2004  maggio 08 Sabato calendario

Il ragazzo che non voleva crescere compie cent’anni, ma non ha mai avuto tanti compagni. In media i ragazzi italiani restano sette anni nelle aule universitarie e non diventano dottori fino a 28 anni

Il ragazzo che non voleva crescere compie cent’anni, ma non ha mai avuto tanti compagni. In media i ragazzi italiani restano sette anni nelle aule universitarie e non diventano dottori fino a 28 anni. A finire nei tempi stabiliti riesce solo il 9% degli studenti e il 24,5% addirittura sfora il quinto anno fuori corso. Questo il ritratto del laureato del XXI secolo, disegnato dalla banca dati Almalaurea (www.almalaurea.it) che raccoglie vita, esperienze e ambizioni di 46 mila neodottori di 19 tra i maggiori atenei italiani. Peter Pan, creato nel 1904 dallo scrittore James Matthew Barrie, sembra continuare ad affascinare sia i registi che gli psicologi. Il ”Peter Pan” dell’australiano J.P. Hogan, già nelle sale americane e in Italia dal 2 aprile, ripercorre le orme degli altri film sullo stesso personaggio di Walt Disney e Steven Spielberg. In autunno, poi, Johnny Depp vestirà (per la regia di Mark Forster) proprio i panni di Barrie : uomo dalla vita cupa e tragica, che nelle sue favole cercava rifugio dai suoi molti dolori. Forse la favola del ragazzo volante non passa di moda perché rappresenta una condizione psicologica sempre più diffusa, specialmente tra la popolazione maschile? Era questa, d’altronde, la tesi sostenuta già nel 1983 dallo statunitense Dan Kiley, in un libro che diventò rapidamente un bestseller negli Usa: ”The Peter Pan syndrome: men who have never grown up” (’la sindrome di Peter Pan: gli uomini che non sono mai cresciuti”). Nel volume, una sorta di manuale di auto-aiuto per le donne che hanno a che fare con uomini di questo tipo, Kiley descriveva le caratteristiche psicologiche di un maschio adulto cronicamente immaturo e aggrappato con tutte le sue forze alla spensierata giovinezza. I sintomi descritti da Kiley per questa ”sindrome” (che a scanso di equivoci non esiste, nel senso proprio del termine, nel vocabolario di psicologi e psichiatri) erano l’incapacità di impegnarsi nelle relazioni e di fare progressi sul lavoro, la ricerca continua di gratificazioni immediate, l’ossessione per le novità, il legame strettissimo con la madre e il fatto di continuare a vivere con i genitori fino alla soglia dei 30 anni e oltre. A conferma che il numero degli eterni ragazzi è in crescita nella nostra società, ci sono le statistiche sulla permanenza in famiglia dei giovani. Secondo gli ultimi dati Istat, il 60 per cento degli italiani rimane a vivere con i genitori fino a dopo i 30 anni. « una condizione particolarmente diffusa nel nostro Paese e in Spagna, meno nel resto d’Europa» osserva Adele Menniti dell’Istituto di ricerche sulla Popolazione del Consiglio nazionale delle ricerche, «dovuta soprattutto al fatto che in Italia abbiamo ormai un’università ogni cento chilometri, per cui non è necessario spostarsi per studiare. Inoltre, in molti Paesi del Nord Europa esistono aiuti economici per i giovani che vogliono mettere su una casa propria, mentre da noi questo non avviene». Troppo facile, però, puntare il dito contro i soliti italiani ”mammoni”. vero che negli Stati Uniti l’età media a cui si lascia casa è molto più bassa che da noi, e si aggira attorno ai 25 anni: ma sta salendo costantemente dall’inizio degli anni 70. Evidentemente, è in atto un mutamento sociale profondo. «La punteggiatura tra le diverse fasi della vita non è un dato assoluto», spiega Riccardo Prandini, docente di sociologia della Famiglia all’Università di Bologna. «Il passaggio dalla giovinezza a età adulta» spiega Prandini, «è essenzialmente un fenomeno sociale, che come tale può collocarsi diversamente nelle varie epoche». Negli ultimi decenni, quel momento si è progressivamente spostato in avanti, perché il livello di preparazione scolastica richiesto per la maggior parte delle professioni è sempre più alto. Ma ora, specialmente in Paesi come il nostro, questo ”apprendistato” sempre più lungo non si traduce in maggiori certezze verso il futuro. Alla fine degli studi non corrisponde automaticamente il primo lavoro, il primo stipendio sicuro, insomma la possibilità di rendersi indipendenti. « evidente che in una situazione come questa c’è una retroazione sull’individuo che accusa difficoltà di crescita, ansia, depressione, eccessi di vario tipo» dice Prandini. Ma per parlare di ”sindrome di Peter Pan” si prende sempre come punto di riferimento la generazione cresciuta nel secondo dopoguerra. «Ma era quella, più che l’attuale, a essere una situazione eccezionale e contingente. C’erano economie da ricostruire, padri scomparsi in guerra, abbondanza di posti di lavoro, grandi fabbriche che portavano i giovani lavoratori verso il coinvolgimento politico». Era quella, insomma, la generazione ”anomala”, costretta a crescere troppo in fretta. «Se guardiamo ai dati dei primi anni del XX secolo, sia in Italia che negli altri Paesi, scopriamo che gli uomini rimanevano con i genitori fino a 30 anni proprio come accade ora». Non va dimenticato, inoltre, che sono gli stessi padri e madri a rifiutarsi di comportarsi da anziani e a rifiutare l’invecchiamento. «La cultura occidentale nel suo complesso è sempre più giovanilistica, c’è un generalizzato rifiuto di invecchiare, un diffuso narcisismo e un culto del corpo che riguarda tutte le generazioni» conferma Prandini. Ma chi ha detto poi che rimanere un po’ bambini anche da adulti sia così grave? Non lo crede lo psicanalista Aldo Carotenuto, docente di psicologia all’Università La Sapienza di Roma, che proprio in polemica con questa concezione ha scritto un libro in cui parla di ”strategia” (e non sindrome) di Peter Pan (’La strategia di Peter Pan”, del 1995). «Peter Pan è colui che sogna e che spera, ma soprattutto che sa aggirare la realtà con la fantasia» spiega, Carotenuto «la sua non è sindrome, è una visione del mondo, una ”strategia”». Chi riesce a rimanere sempre almeno un po’ bambino può cioè essere un vincente, perché mantiene quelle dimensioni di creatività che sono proprie del pensiero infantile. «L’universo infantile e il contatto con le dimensioni eternamente ”bambine” della psiche» sempre secondo Carotenuto «costituiscono un patrimonio inestimabile che però, nella maggioranza dei casi, viene del tutto sottovalutato». Non è un caso, secondo lo psicologo, che si parli di sindrome di Peter Pan quasi esclusivamente in relazione agli uomini. «Questo comportamento» osserva Carotenuto «è più tipico dei maschi che delle femmine perché è soprattutto l’uomo, costretto com’è da questa società a calpestare e offuscare le sue emozioni, ad avvertire più pressante l’esigenza di riscoprirle e riviverle». Nicola Nosengo