Severino Colombo, La Macchina del Tempo, maggio 2004 (n.5), 8 maggio 2004
Leggero e insieme pesante. Sottile e di spessore. Sono queste le caratteristiche che da sempre accompagnano il velo
Leggero e insieme pesante. Sottile e di spessore. Sono queste le caratteristiche che da sempre accompagnano il velo. Un pezzo di tessuto fine e trasparente legato, per quello che in senso figurato vi sta sotto, a questioni importanti. portatore di valori culturali, religiosi, sociali: si va dal rispetto e dalla sottomissione da parte della donna a Dio o all’uomo alla distinzione all’interno della società, dall’usanza tradizionale ad accessorio elegante e di moda o anche soltanto igienico nell’abbigliamento femminile. Facce della stessa medaglia, insomma, che spesso convivono inconsapevolmente e pacificamente, altre volte entrano drammaticamente in conflitto, basti pensare al recente caso di cronaca delle due ragazze musulmane Alma e Lila espulse dal liceo francese di Auberville perché ostentavano il velo come simbolo religioso. Insomma la storia del velo, e dei suoi significati, è tutt’altro che semplice. Per rintracciarne una possibile origine dobbiamo partire da molto lontano. «Una legge assira del 1200 a.C.» scrive James Laver in ”Moda e costume” (Rizzoli, 2003), «obbligava le donne sposate a indossare un velo quando erano in pubblico». Si tratta, secondo l’autorevole esperto di storia dell’abbigliamento, già conservatore del Victoria & Albert Museum di Londra, della «più antica fonte documentaria di un’usanza che in quelle regioni persiste fino all’età moderna». Nel Cristianesimo, l’uso del velo era legato esclusivamente alla pratica religiosa, come si legge nella prima Lettera ai Corinzi di San Paolo: «Ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se una donna non vuole mettersi il velo si tagli anche i capelli. Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra» (11, 5). Chiari, per San Paolo, anche i motivi dell’uso del velo, probabilmente derivato da antichi costumi orientali: «L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo (...) per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza» (11, 7). La Chiesa cattolica ha abolito nella seconda metà del Novecento l’obbligo di tenere il capo coperto durante le funzioni, ma non è infrequente vedere ancora oggi anziane signore, soprattutto nei piccoli paesi, che si accostano velate ai sacramenti della comunione e della confessione. Ancora vivissimo è inoltre l’uso di un velo bianco per la sposa al matrimonio, come segno di rispetto oltre che come ornamento dell’abito. In passato, il velo doveva essere adottato come segno di sottomissione al volere divino, oltre che come segno di modestia, per coprire cioè un attributo di bellezza femminile che poteva essere una fonte di distrazione per l’uomo durante il raccoglimento religioso. Nella stessa direzione di quanto scritto da San Paolo vanno le indicazioni riunite nel III secolo d.C. da Tertulliano nel trattato ”De virginibus velandum”. Il titolo dell’opera non lascia dubbi: non solo si prescriveva l’uso del velo per le donne, ma erano vivamente consigliati abiti che nascondessero l’intero corpo. Questo costume divenne una regola nei Paesi dell’area del Mediterraneo e tale era ancora nel VII secolo quando l’Islam fece la sua comparsa. Nella religione musulmana il velo è strettamente obbligatorio durante la preghiera rituale. Al di fuori di quest’ambito, nella vita sociale, sono due i versetti del Corano che parlano dell’uso del velo per le donne (vedi box a sinistra). Si tratta di riferimenti piuttosto generici, che come tali sono aperti a molteplici letture: quello che è importante sottolineare è che il velo era nella società islamica delle origini, come già presso i popoli assiri, un segno di distinzione. Il cosiddetto velo islamico, quindi, «rappresenta solo un costume (nel senso più ampio di questo termine), basato sull’interpretazione (maschile) di pochi passi coranici», si legge in ”Islam. Fede, legge e società” (Giunti, 2003). Per dirla con Yves Thoraval, autore di ”Islam. Piccola enciclopedia” (Rizzoli, 2003), si tratta di raccomandazioni a «velarsi in segno di nobiltà». Come tale lo troviamo del resto usato anche nella tradizione occidentale, nella Francia del V secolo d.C. Nel corredo tombale della regina merovingia Armegonda è stato ritrovato un velo che arrivava fino alla vita, fissato alla tunica con due fibule d’oro. Pare, in generale, che in questo popolo gli uomini e le ragazze tenessero i capelli sciolti, «mentre le donne sposate» spiega James Laver «li legavano in una sorta di chignon e inoltre si coprivano il capo con un velo» raccolto in forma di turbante o lasciato cadere lungo il corpo. E di un velo che formava una vera e propria acconciatura si ha notizia anche nell’abbigliamento delle donne inglesi dell’Alto Medioevo. Con le prime Crociate, poi, vennero introdotte in Occidente stoffe di finissima fattura, e si diffuse il velo maomettano soprattutto tra le donne dell’alta società. «Le dame europee» scrive ancora Laver «adottarono il velo maomettano, o meglio un soggolo, che nascondeva la parte inferiore del viso». solo la prima delle interpretazioni di questo accessorio tra le donne altolocate. In genere, dal XII al XIV secolo il velo era impreziosito da un cerchio dorato in fronte e completato da una fascia di lino, come una sorta di cuffia che cingeva mento e tempie, e da una gorgiera che copriva il collo. Si trattava in ogni caso di un velo ”integrale”, cioè copriva interamente il capo, visto che era considerato immorale per le donne di alto rango mostrare la capigliatura. L’evoluzione inizia quando, nel Trecento, da un lato il semplice velo viene lasciato a monache e vedove, dall’altro si assiste alla nascita di acconciature ardite e fantasiose con uso e abuso di filet e crespine per raccogliere e trattenere i capelli; il velo, di lino, pieghettato e a più strati, si chiamava nebula e manteneva un ruolo importante. Un prezioso contributo alla storia del velo viene dai capolavori dell’arte. Basti pensare all’iconografia della Madonna, da Giotto in poi, o alla celebre ”Gioconda” di Leonardo, il cui volto è incorniciato da un velo trasparente che ne accentua il misterioso fascino; o ancora, al quadro di Jan van Eyck ”I coniugi Arnolfini”. Non meno famose sono poi le donne di Raffaello: ”La velata” con sul capo un panno ”alla romana”, che si richiama appunto a un costume delle donne romane, o ancora ”La fornarina”, la cui acconciatura, un velo attorcigliato come un turbante e fissato al capo da un cordoncino dorato, pare derivi dalla moda detta della ”capigliara”, lanciata alla Corte di Mantova da Isabella d’Este. Sempre più spesso sostituito da cappelli e copricapi elaborati, il velo torna timidamente in voga nell’Ottocento, quando diventa, un po’ per moda e un po’ per comodità, un accessorio di rigore per le signore della buona società che amavano andare a cavallo. Sul finire del XIX secolo, con l’affermarsi delle politiche coloniali degli Stati nazionali e con il processo di emancipazione della donna, nasce la questione del velo islamico: semplificando molto i punti di vista, una battaglia contro un’imposizione oppressiva da un lato e la difesa di identità e tradizioni di un popolo dall’altro. Non senza contraddizioni, come dimostra la posizione di Lord Cromer, console generale britannico in Egitto tra Otto e Novecento, che fu al contempo fautore dell’abolizione del velo nelle terre d’Oriente e presidente della ”Men’s league for opposing women’s suffrage” (lega degli uomini contro il voto delle donne). Per quanto riguarda il velo come accessorio di moda e di stile, il fascino culturale dell’Oriente e il gusto per l’esotico ne segnano un ritorno in grande stile. «Già nel secondo Ottocento e per tutta la prima metà del Novecento» dice Guido Vergani, giornalista e curatore del ”Dizionario della moda” (Baldini Castoldi Dalai, 2004), «veli, velette e scialli sono diffusissimi». La passione per il velo ebbe anche una vittima eccellente: «La danzatrice Isadora Duncan, all’epoca emblema di moda ed eleganza» prosegue Vergani «morì tragicamente nel 1927, strozzata dal velo che si impigliò nei raggi della sua auto, un’Isotta Fraschini». La storia recente del velo è legata ad alcune icone: «Negli anni Cinquanta e Sessanta» aggiunge Vergani «le ragazze sognavano un foulard di Hermès da attaccare alla borsetta senza indossarlo, come Brigitte Bardot. Come dimenticare, poi, Silvana Mangano, che in ”Morte a Venezia” era avvolta in veli e mussole o una deliziosa signora, Wally Toscanini, moglie di Arturo (NOTA DI LUCREZIA: non è la moglie ma la figlia, attenzione!), che, ancora nel pieno della bellezza, non dimenticava mai di portare la veletta, forse un modo per soffondere eventuali ferite del tempo». I recenti fatti di cronaca sul divieto del velo, sul progetto di legge Chirac in Francia o sui provvedimenti presi in alcuni Länder tedeschi – attorno ai quali si sono confrontati e divisi politici, esponenti del mondo culturale arabo e occidentale, da Wassyla Tamzali al premio Nobel Sovinka Wole, intellettuali come Luce Irigaray, filosofi quali Paul Ricoeur e molti altri – rappresentano solo un aspetto, quello impegnato, della faccenda. L’altro, più leggero ma non meno importante e forse perfino destinato a lasciare un segno più marcato – è legato alla moda: è il cosiddetto ”Islam Style” che, proposto da alcune giovani stiliste musulmane, è apparso sulle passerelle nelle sfilate delle ultime collezioni e che ha proprio in una libera (e liberatoria) interpretazione del velo il suo punto di forza. Severino Colombo