Simona Lambertini, Isabella Vergara Caffarelli, La Macchina del Tempo, maggio 2004 (n.5), 8 maggio 2004
Collinette artificiali da dove poter ammirare, non visti, leoni scorrazzare quasi liberi, pertugi tra le canne di bambù per osservare il macaco che metodicamente spulcia la moglie, anfratti naturali in cui nascondersi per rimanere estasiati al passaggio delle giraffe: definire il giardino zoologico di Berlino uno zoo sarebbe estremamente riduttivo
Collinette artificiali da dove poter ammirare, non visti, leoni scorrazzare quasi liberi, pertugi tra le canne di bambù per osservare il macaco che metodicamente spulcia la moglie, anfratti naturali in cui nascondersi per rimanere estasiati al passaggio delle giraffe: definire il giardino zoologico di Berlino uno zoo sarebbe estremamente riduttivo. La nostra gita in questa vera e propria città degli animali nel cuore della capitale tedesca comincia di buon’ora, in una tiepida mattina di fine inverno, ma alla chiusura, dopo aver camminato per ore e ore affascinati dagli spettacoli naturali che di volta in volta ci si sono presentati, ci accorgiamo con rammarico che ancora non abbiamo visto tutto. Poche le sbarre: molti degli animali presenti vivono liberi e se è anche vero che sono comunque prigionieri, l’impressione generale è che non siano sacrificati. D’altra parte sono parecchi gli sforzi che i curatori dello zoo fanno per rendere le loro condizioni di vita il più possibile vicine a quelle naturali: all’interno del nuovissimo Hippo-Dom per esempio, la nuova vasca riservata agli ippopotami, la temperatura e le correnti acquatiche variano dal giorno alla notte e con una serie di riflettori giganti vengono simulate le condizioni di luce e ombra in base alle stagioni tipiche dei tropici. E a questa si aggiungono mille altre iniziative che vanno nella direzione di una miglior conservazione delle specie e, perché no, anche della loro salvaguardia: sono nati proprio qui, poco tempo fa, tre tigrotti siberiani, specie in via di estinzione. Ma allora, cosa sono oggi gli zoo? Prigioni senza scampo, o speranza per le specie in pericolo? Crudeli parchi di divertimento, o strumenti per avvicinare la gente alla natura? Dagli zoo cinesi arriva una buona notizia: Zhang Zhihe, a capo della Commissione sulla tecnologia per la riproduzione del panda gigante, fa sapere che su diciannove cuccioli nati in cattività nel 2003, sedici sono sopravvissuti e godono di ottima salute. Una percentuale di successo dell’84% che, secondo Zhihe, farebbe ben sperare per il futuro di questa specie. Come sappiamo, di panda giganti allo stato selvatico ne rimangono pochi, circa 1.000 confinati sulle montagne dello Sichuan, nel sudest della Cina. Negli zoo vivono circa 140 esemplari. Ma non è chiaro se lo sforzo dei ricercatori porterà davvero alla crescita dell’esigua popolazione selvatica, dal momento che la reintroduzione di questi animali in natura è molto difficile. «Spesso» spiega l’etologo Giorgio Celli «le specie si estinguono perché sparisce il loro habitat. Liberare un esemplare che poi non ritrova le giuste condizioni per la sua sopravvivenza lo porta in molti casi alla morte. Senza contare che, in genere, in cattività si ottiene un numero limitato di cuccioli, spesso parenti tra loro». E la consanguineità, come sappiamo, alla lunga può portare a un indebolimento della specie, perché riduce la variabilità genetica e trasmette tare nei discendenti. Proprio per evitare di incrociare animali imparentati, sono stati sviluppati specifici programmi di riproduzione, basati sulla cooperazione di più enti di ricerca sparsi nel mondo. Fulvio Fraticelli, curatore del Bioparco di Roma, conferma l’amara realtà della natura: «Solo l’11 per cento dei progetti di reintroduzione è andato a buon fine». Certo, è triste pensare di non poter vedere mai più il musetto tenero dell’orsetto cinese. L’intervento degli zoo può ritardare la fine della specie, che, comunque, prima o poi sarà inevitabile, a meno di non proteggere il suo territorio. Pur nelle loro contraddizioni, sicuramente gli zoo hanno fatto grandi passi avanti da quando sono nati, nell’Europa di fine Ottocento. A quel tempo il concetto di ”conservazione”, inteso come salvaguardia delle specie rare, era quasi sconosciuto e i giardini zoologici si limitavano a raccogliere collezioni di animali rari, provenienti da terre lontane, che venivano esposti in anguste gabbie per suscitare la curiosità e la meraviglia dei visitatori. Negli anni successivi poco è cambiato: le gabbie si sono ingrandite, gli spazi si sono fatti meno angusti e il numero degli esemplari è aumentato, ma le sbarre hanno continuato a dividere gli animali dalla libertà. stato Carl Hagenbeck, un commerciante di animali di Amburgo, a gettare all’inizio del Novecento le basi dello zoo moderno, ideando ambienti senza sbarre, in cui fossati e avvallamenti naturali separano gli animali dai visitatori. Con la nuova concezione, Hagenbeck progetta anche lo zoo di Roma, inaugurato nel 1911 e per anni considerato il più bello d’Europa, ma che poi andrà incontro a un declino drammatico. Proprio per porre rimedio a una situazione disastrosa, nel 1998 il giardino zoologico romano viene trasformato in Bioparco, una società a capitale misto: pubblico (il Comune di Roma) e privato (Costa Edutainment e Cecchi Gori Group). I bioparchi di oggi, in gran parte statunitensi, hanno ben poco a che fare con gli zoo di una volta: mammiferi, rettili, pesci e uccelli vivono spesso nel loro habitat naturale ricostruito e, per vederli, bisogna percorrere tunnel sotterranei o passare su passerelle sospese sopra i loro rifugi. E nel rispetto della loro privacy, come avverte il cartello all’ingresso dello zoo del Bronx, 100 ettari nel cuore del celebre quartiere di New York: «Non ci si deve aspettare di vedere tutti gli animali». Dopo tutto in natura non è così semplice avvistarli. Certo la riproduzione dei loro ambienti naturali non è sempre perfetta: la vegetazione della jungla nei rigidi inverni di alcune città è costituita da foglie sintetiche, fiori finti e mangrovie in fibra di vetro; i suoni della savana sono ricreati con un sottofondo musicale e la neve perenne per l’orso polare richiede l’impiego di chili di ghiaccio secco, ma nel complesso si riescono comunque a ricreare condizioni di vita più a misura ”d’animale”. Gli zoo del futuro si avvicineranno sempre più a strutture protette, i guardiani diventeranno una sorta di animatori e gli animali si trasformeranno in ospiti degni d’ogni riguardo, ma non per questo viziati e coccolati tanto da privarli dei loro istinti. Uno dei maggiori problemi degli zoo è proprio quello di privare gli animali degli imprevisti della natura, dei pericoli, delle sfide quotidiane per procurarsi il cibo, delle insidie del tempo, dell’interazione (a volte sfavorevole) con altre specie. Spesso capita di vedere animali rinchiusi in spazi troppo piccoli per le loro esigenze, senza mai il contatto con altre specie, abituati a un pasto garantito almeno una volta al giorno, diventare letteralmente apatici e privi di qualsiasi interesse per la vita. Ecco allora che l’attuale approccio di zoologi e veterinari con gli animali degli zoo segue la linea dell’’arricchimento ambientale”, una serie d’interventi per stimolare fisicamente e intellettualmente gli animali. Ad esempio, nelle gabbie degli scimpanzé dello zoo tedesco di Krefeld, il cibo non viene più semplicemente offerto ma nascosto in scatole di legno che gli animali riescono ad aprire con l’aiuto di rametti d’albero raccolti nelle vicinanze; in quello di Basilea sono stati fatti dei buchi profondi all’interno di blocchi di cemento in modo che gli elefanti s’ingegnino con la proboscide per tentare di estrarre il cibo che vi è stato nascosto. L’importante è che gli animali siano stimolati a esercitare il loro istinto e a usare le proprie capacità cerebrali. «Anche al Bioparco di Roma ricorriamo a giochetti simili» racconta Fulvio Fraticelli, «alle scimmie sistemiamo il cibo all’interno di pigne che poi nascondiamo sotto foglie o pezzi di corteccia. Agli orsi bruni mettiamo il cibo dentro blocchi di ghiaccio che poi gli animali devono adoperarsi per rompere,se vogliono mangiare». Per arricchimento ambientale s’intende anche il tentativo di riprodurre il più possibile le condizioni del loro habitat di origine. Ogni zoo ha le sue strategie per far praticare agli animali un po’ di ”jogging” mentale e per farli sentire come a casa propria. Ovviamente ci sono strutture che in questo sono all’avanguardia, come lo zoo di San Diego o il già citato zoo del Bronx, e altre che non riescono sempre a tenere il passo. Gli zoo di tutto il mondo rispondono alla World zoo conservation strategy, nata da un’iniziativa dell’Iudzg, l’Organizzazione mondiale degli zoo, con l’intento di contribuire alla salvaguardia delle specie che stanno scomparendo dal pianeta e alla conservazione della biodiversità. Questo traguardo può essere raggiunto sostenendo la conservazione delle popolazioni di specie minacciate; approfondendo le conoscenze scientifiche da cui la conservazione può trarre beneficio; sensibilizzando l’opinione pubblica. Come abbiamo visto, l’obiettivo di trasformare gli zoo in ultimo rifugio per le specie a rischio non sembra dare i risultati sperati. Reintrodurre i primati in natura, un altro gruppo fortemente minacciato, sembra quasi impossibile. «Così si preferisce mantenerli negli zoo assicurando loro tutte le cure e le attenzioni di cui necessitano. E sono tante», precisa Augusto Vitale, presidente della Società primatologica italiana. «Un esempio in tal senso è lo zoo di Apenheul, in Olanda, dove le scimmie vivono in un ambiente ideale, ma non è male nemmeno il lavoro fatto per migliorare le condizioni di vita degli scimpanzé nel Bioparco di Roma». Anche l’obiettivo di fare ricerca sugli esemplari tenuti negli zoo è limitato, perché gli animali in cattività hanno un comportamento diverso da quello osservabile in natura. Rimane l’obiettivo educativo. «Gli animali per essere amati devono essere visti da vicino» sostiene Giorgio Celli . «La maggior parte dei giovani di oggi vive in città. Manca il contatto con la natura: gli zoo sono un modo per stimolare la crescita di un adulto che poi ama e rispetta gli animali». Questo è possibile solo se sono presenti alcuni fondamentali presupposti: «Sì agli zoo ma solo a determinate condizioni per gli animali: un esempio da seguire è quello dello zoo di San Diego» suggerisce Celli, dove gli spazi sono ampi a tal punto che gli animali forse non si accorgono nemmeno di essere rinchiusi, non esistono recinti né tanto meno gabbie, le varie specie animali interagiscono fra loro e con l’ambiente in maniera naturale e la visita dell’uomo è organizzata in modo che rechi il minor disturbo possibile: è proprio qui che sono state create lunghe passerelle sospese su grandi spazi per vedere gli animali in tutta la loro libertà. A chi obietta che comunque è una libertà con confini ben precisi si può rispondere che ci sono specie animali che sono stanziali, e non hanno bisogno di grandi spazi. E questo riporta a un’altra importante problematica degli zoo: non si possono avere tutti gli animali. Se è vero che alcune specie non necessitano di grandi spazi e soprattutto non sono legate a un particolare ambiente, è anche vero che ce ne sono altre in cui la libertà è fondamentale. «Dobbiamo pensare di rinunciare a felini e orsi» dice Celli, le loro necessità di vita non vanno d’accordo con la realtà dello zoo. Basterebbe guardare negli occhi un orso polare allo zoo per capirlo. Ma la prova arriva da un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford, che analizzando i dati sugli zoo degli ultimi trent’anni hanno scoperto che i carnivori, abituati a percorrere grandi distanze in cattività ci vivono proprio male: bassi tassi di riproduzione, comportamenti strani. Eppure in molte strutture questi animali ci sono, e non sempre sono in condizioni ideali. E allora che fare degli animali rinchiusi? «Ormai pochi vengono catturati» rivela Massimiliano Rocco, responsabile del programma specie e traffic del Wwf Italia, «in genere sono il frutto degli scambi con altri zoo o di nascite in cattività e non sarebbero capaci di tornare a vivere in libertà». Una strategia per il futuro potrebbe essere quindi quella di far rientrare negli zoo solo le specie più adatte, in modo che, su 1 milione di animali rinchiusi in questa sorta di pensioni più o meno di lusso, sia sempre più alta la percentuale di quelli che trovano condizioni favorevoli al loro benessere. Sono molti gli zoo la cui politica segue questa direzione. «Non solo» precisa Rocco. «Molti zoo, come quelli del Bronx, di Berlino o di Londra, finanziano ricerche e progetti di conservazione delle specie nei loro Paesi di origine». E in Italia? Sebbene nel 1999 sia stata stilata una direttiva del Consiglio dei ministri dell’Ue che fa propri gli obiettivi della World zoo conservation strategy, nel nostro Paese manca una vera e propria legge che disciplini la detenzione degli animali negli zoo. La Uiza (Unione zoo e acquari italiani) ha certificato la presenza di 32 strutture autorizzate, ma si pensa che siano molte di più quelle illegali. Anche se probabilmente nessuno degli zoo italiani ha ancora raggiunto i livelli di alcune strutture internazionali, si sta facendo molto al Bioparco di Roma o al parco NaturaViva sul Lago di Garda. «Tra tutti, però, vale la pena di citare il parco faunistico La Torbiera, di Agrate Conturbia, vicino a Novara» prosegue Rocco «che non solo è molto ben gestito ma collabora con strutture presenti nei Paesi di origine per la conservazione di animali come il leopardo delle nevi in Asia o del cervo delle Filippine». La strada da percorrere, però, è ancora lunga, e Giorgio Celli lancia una proposta: «Riunire tutti gli animali rinchiusi nei vari zoo italiani in un unico grande spazio, magari all’interno di uno dei parchi naturali presenti sul territorio. Il Parco Naturale d’Abruzzo potrebbe essere un candidato ideale. Solo in questo modo e con finalità ben precise è possibile pensare di privare un animale della sua libertà». Simona Lambertini Isabella Vergara Caffarelli