la Repubblica, venerdì 5 marzo, 7 maggio 2004
La domanda - così ne scrissi alcuni anni fa, su queste pagine - era ed è rimasta questa: perché non mandiamo questo vecchissimo uomo, che abbiamo stanato in Patagonia e portato qui e condannato, a morire accanto alla sua vecchia donna a quel paese? A questa domanda alcuni pochi avevano risposto presto con nettezza: fra quelli che ricordo, Anna Maria Ortese, su questo giornale - che, prima di morire arrivò a evocare il nome di ”agnello”, per lei supremo, a proposito della sorte di quel vecchio
La domanda - così ne scrissi alcuni anni fa, su queste pagine - era ed è rimasta questa: perché non mandiamo questo vecchissimo uomo, che abbiamo stanato in Patagonia e portato qui e condannato, a morire accanto alla sua vecchia donna a quel paese? A questa domanda alcuni pochi avevano risposto presto con nettezza: fra quelli che ricordo, Anna Maria Ortese, su questo giornale - che, prima di morire arrivò a evocare il nome di ”agnello”, per lei supremo, a proposito della sorte di quel vecchio. Io avevo allora, e la conservo, l’opinione espressa nitidamente da Tullia Zevi, responsabile allora della comunità ebraica: noi, disse, teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo a che il condannato resti in galera e ci muoia. In Ortese e in Ceronetti c’era una dichiarata compassione per una persona così distante dalla stagione di orrore che lo aveva trascinato. Nella Zevi c’era un ripudio per lo spirito vendicativo, un disinteresse per l’espiazione personale così tardiva e superflua. Superflua per tutti, se non per l’eventuale attaccamento dei prossimi delle vittime al surrogato estremo e infimo di risarcimento procurato dalla sofferenza dell’antico criminale.