Varie, 5 maggio 2004
ZEICHEN
ZEICHEN Valentino Fiume (Croazia) 24 marzo 1938. Poeta • «Un perfetto equilibrista: si tiene, con la sua poesia, su una linea sottile, che tira il collo a eloquenza e lirismo senza, per questo, soffocare lo slancio della scrittura. Fra le voci più felici della generazione che ha esordito negli anni Settanta, non smette di mordere e sbeffeggiare le belle lettere nostrane, con illuministico distacco e ironico sorriso. Una misura in crescendo di cui si apprezza già tutta la portata in Gibilterra (1991) [...] In Metafisica tascabile (1997) alto e basso si fondono: il pensiero filosofico (metafisico) si sposa al quotidiano in un affettuoso intreccio. Rilievi sul mondo e interventi personali convivono, equilibrandosi a vicenda. Nella poesia dedicata al rito del bagno, per esempio, le piccole bolle d’aria, che schiumano sotto le mani del poeta su una bellezza nuda, lasciano subito il posto alle osservazioni intorno alla marca quasi cancellata e alle crepe, simili a geroglifici, delle Saponette: ”Non oso manometterle, / come se mi vedessi osservato / dal custode di un museo egizio / ma vorrei lavarmi la mani...”. E così, deliziosa, finisce la poesia. In A ogni cosa ha detto addio (2000), Zeichen cammina invece per Roma, la sua città, chiacchierando affabilmente di imperatori e di bar, di papi, di invasioni e uffici delle poste. Con i turisti e le voci degli antichi in libera circolazione, il Colosseo è in gran subbuglio. Ed è proprio da lì che il poeta manda i suoi bollettini di guerra» (Ermanno Krumm, ”Corriere della Sera” 5/5/2004). « molto difficile [...] se non addirittura impossibile, inserire Zeichen in un qualsiasi contenitore che lo faccia sentire in compagnia di qualcuno. E a rileggerli tutti insieme, i quarant’anni di poesia che il suo Oscar ci squaderna davanti, quest’impressione riceve una conferma pressoché definitiva: è assolutamente sua, ad esempio, e assolutamente non estensibile a chicchessia, la costante e [...] genetica contaminazione di universi semantici e registri espressivi fra loro distantissimi, con effetti di straniamento, di curvatura ironica del discorso, di flagrante eppur controllatissimo smottamento degli equilibri comunicativi, che appare in tutto e per tutto consustanziale al suo stesso far poesia. Quale che sia il tema apparentemente privilegiato, esso subisce ipso facto, nel momento in cui viene calato nello spazio della scrittura, un processo di disseminazione e al tempo stesso di complicazione che ne moltiplica, verso orizzonti sempre inattesi per via di vertiginose analogie proliferanti l’una dall’altra, le capacità significative. E se la moltiplicazione va il più delle volte nella direzione di una sogghignante deformazione ludica, ciò non toglie che il complesso dei ”perturbanti” possa veicolare molte altre categorie di senso, talora decisive proprio in quanto non esplicitamente dichiarate. Prendiamo, ad esempio, quello che sembra niente più che uno svagato divertissement, raccolto in Museo interiore: ”Stimolati all’erettilità/ i suoi capezzoli s’impuntano fino/ a somigliare ad appendici carnali/ di luminosi bulbi Liberty;/ s’abbassano sul mio petto come le appuntite testine/ d’un monumentale grammofono,/ girano su invisibili microsolchi/ incisi sul piatto sterno./ La musica è trascinante;/ le chiedo di tornare indietro./ Voglio risentire quel motivo,/ e se fossero due, o è lo stesso?/ Ma più d’ogni altra eventualità/ temo che le grossolane testine/ mi graffino i dischi” (Chiudi i tuoi occhi). Qui la pulsione erotica, che dà una sua evidente impronta alla poesia, slitta immediatamente nelle immagini giocose dei ”bulbi Liberty” e delle ”appuntite testine”, non senza però che nel passaggio dall’una all’altra si adombri quello ben più tangibile che conduce da un puro contatto visivo a un contatto pienamente corporeo. A quel punto - e siamo ormai alla ”narrazione” di un ripetuto amplesso – l’analogia col ”grammofono” può produrre una genuina metafora (’La musica è trascinante... Voglio risentire quel motivo”) che approda a un’ulteriore battuta giocosa sui possibili graffi inferti ai dischi. E tuttavia proprio in quella potente avversativa, in quel ”Ma” che riporta improvvisamente a zero la tensione con la sua ”musica trascinante”, si cela un nuovo slittamento dal gioco analogico all’introspezione ”seria”: dal rapporto sessuale temo di riportare un danno, ho paura di concedermi, tengo più di ogni altra cosa alla inscalfibilità dei miei sentimenti e del mio istinto di conservazione. Il sistema rigorosamente antilirico delle dislocazioni ironiche e ”oggettive” può così ribaltarsi in una confessione altamente lirica e tutta sottaciuta, ma non per questo meno efficace nel suggerire subliminalmente un senso a noi lettori. E si ha proprio l’impressione che questo complesso gioco di specchi sia esattamente l’obiettivo principe della scrittura poetica di Zeichen; e c’è un’indiscutibile coerenza nel suo sottoporre in ogni raccolta un diverso asse tematico dominante all’azione implacabile della disseminazione e della deformazione: la condizione del poeta e la natura dell’attività poetica in Area di rigore (1974), l’eternità dell’adolescenza in Ricreazione (1979), il conflitto, sia esso militare, sentimentale o amicale in Pagine di gloria (1983), l’erotismo in Museo interiore (1987), la seconda guerra mondiale e l’emergenza ambientale in Gibilterra (1991), le prospettive della storia e del pensiero occidentali in Metafisica tascabile (1997), Roma e i suoi luoghi in Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (2000). Una coerenza che è anche la garanzia dell’unitarietà indefettibile di un’intera produzione» (Stefano Giovanardi, ”la Repubblica” 12/6/2004).