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 2004  maggio 03 Lunedì calendario

Corriere della Sera, venerdì 12 marzo «La Lega deve essere politicamente scorretta, perché se anche noi leghisti fossimo politicamente corretti, in questo Paese non cambierebbe mai nulla»

Corriere della Sera, venerdì 12 marzo «La Lega deve essere politicamente scorretta, perché se anche noi leghisti fossimo politicamente corretti, in questo Paese non cambierebbe mai nulla». tutto qui, il nocciolo di Bossi e del suo percorso politico. Nella scelta dichiarata e vantata di esser senza regole. Nel linguaggio, nelle alleanze, nella tattica. Nel sostenere, dal fronte dell’antipolitica, la più politica di tutte le strategie: il fine giustifica i mezzi. Con un limite netto che deve essergli riconosciuto anche dagli avversari: mai violenza, mai bastoni. A parole sì, il Senatùr le ha sempre sparate grosse. Una volta lo registrarono mentre diceva ad Alberto Mazzonetto, il segretario provinciale della Lega di Venezia che era intercettato: «Avremo tutti il mitragliatore in mano, sarà una soddisfazione enorme portarmene all’altro mondo il più possibile di questa merda vivente». Un’altra ringhiò: «La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere da sparo». Un’altra ancora: «Noi i fascisti di Fini li attaccheremo sempre: li teniamo sotto il tiro del nostro Winchester». E via così, a seconda dei nemici del momento: «L’esercito albanese ha lasciato le caserme e le armi incustodite. Se capitasse in Italia noi sapremmo cosa farne». «Berlusconi vorrebbe vedermi ma se mi telefona gli faccio sentire il rumore del rullo del revolver». A chi gli rinfacciava di essere un cattivo maestro, tuttavia, ha sempre risposto che neppure l’assalto al campanile di San Marco del ’97 era riconducibile a lui, che anzi lesse sulle prime l’episodio come «una cosa che puzza di servizi». A un congresso al Palavobis, appioppò a Stefano Galli, il segretario di Como autore d’una mozione sul «diritto alla legittima difesa», una pubblica bacchettata: «Il nostro fratello padano, certamente in buona fede, confonde l’amore per la Padania con qualcosa d’altro. Noi non siamo nazionalisti: siamo patrioti. Noi siamo per l’amoooore! La violenza la lasciamo allo Stato italiano! Siamo gandhiani. Ué, bestia, hai capito?». Quando si vantò d’aver fermato lui «trecentomila bergamaschi stavano per ribellarsi con le armi allo Stato», Stefano Benni lo prese per i fondelli con una poesiola: «Eran trecentomila bergamaschi con fucili e cannoni / o forse eran tremila armati di forconi. / O forse eran cinquanta / ultrà dell’Atalanta. / Vabbè ero io da solo / però avevo un punteruolo». Ganassa e volgare, in realtà, in questi anni lo è stato senz’altro. Ma è proprio la capacità istrionica di tenere insieme mille cose e mille contraddizioni senza farsene travolgere lo stupefacente prodigio di questo animale politico capace di intercettare alcuni temi con un tempismo raro. Un giorno gli storici saranno costretti a interrogarsi su Bossi come su una specie di messia laico, popolare e popolano. In grado di appellarsi al «popolo che si alza alle quattro di mattina» senza aver mai lui lavorato se non per dieci mesi all’Aci. Di attaccare frontalmente i «politici di professione» pur essendo questa la sua sola professione. Di accusare i suoi avversari di essere degli imbroglioni infischiandosene di chi gli ricorda le feste di laurea date senza mai essersi laureato o la prima candidatura elettorale vissuta sotto la qualifica «il dentista Bossi Umberto». Di presentarsi volta per volta come la novità pur essendo entrato in Parlamento perfino prima di qualche comprimario della Prima Repubblica. Di definirsi un «cattolico tradizionalista» pur avendo celebrato come un antico druido matrimoni celtici. Di presentarsi come «un umile servitore del congresso» pur reggendo il partito col pugno di ferro del capo accentratore che negli anni lo ha spinto a liberarsi di tutti quelli che lo avevano contrastato, a partire da otto su dieci dei fondatori del Carroccio. Di attaccare il Papa polacco perché ha detto due frasi in romanesco ai parroci romani e insieme di andare in tivù a recitare lui in napoletano con Massimo Ranieri: «Io vulesse truvà pace; ma na pace senza morte. / Una, mmiez’a tante porte, / s’arapesse pè campa. / Pecché, insomma, si vuò pace...». Il «suo» popolo, che nelle aree pedemontane era stato per decenni un popolo bianco, gli ha sempre perdonato tutto. E lo ha sempre seguito con la dedizione fideistica riservata ai profeti. Quando appoggiava i magistrati di Milano benedicendo i suoi deputati che sventolavano il cappio alla Camera e quando attaccava Di Pietro («Si candidi al Sud perché se si candida al Nord gli regalo una valigia di cartone che fa rima con terrone») dopo esser stato condannato per aver preso i soldi di Raul Gardini. Quando giurava che la Lega non sarebbe mai andata al governo «coi puzzolenti fascisti» e quando un mese dopo entrava a Palazzo Chigi insieme agli uomini di An. Quando diceva «Berlusconi è un brutto mafioso che guadagna i soldi con l’eroina e la cocaina» e quando tornava ad allearsi con lui definendolo «il nuovo Carlo Magno europeo» e liquidando la scelta di far cadere il suo primo governo come «un equivoco». Quando corteggiava i piccoli produttori del Nord e quando faceva pubblicare alla ”Padania” titoli contro l’«egoismo» delle fabbriche che chiedono extracomunitari. Sempre. E questo è stato il prodigio del «guerriero» oggi alle prese con la più difficile delle sue battaglie: avere imposto alla politica italiana, al di là dei sussulti xenofobi talora inaccettabili e di ogni giudizio di merito sul progetto, la «questione del Nord» e il grande tema del federalismo. Grazie all’agilità politica e al bombardamento di ultimatum che solo lui può permettersi, alla spregiudicatezza con cui sostiene che «per avere quel che voglio sono disposto a trattare anche con la mafia e la camorra», al rapporto di totale fiducia con la «sua» gente. E alla straordinaria capacità di trasformare in vittorie, o almeno nell’arroccamento che consolida, anche le sconfitte, le delusioni e le ritirate. Dalla secessione al «governo sole», dalla promessa della conquista leghista alle regionali del 2000 di «tutte le regioni del Nord» al faticoso cammino della devolution nonostante avesse assicurato che «con la Lega le riforme si fanno subito per subito». Ha detto un giorno Matteo Salvini, direttore di Radio Padania: «Nel consiglio federale il possesso palla è per il 95 per cento di Bossi». E questo è il tema di oggi: cosa sarà la Lega, per una settimana o per quel che sarà, senza il suo regista? Gian Antonio Stella