La Stampa, venerdì 12 marzo, 3 maggio 2004
Quante volte l’hanno dato per morto. Quante volte se l’è cavata. Per certi versi la vita pubblica di un paese finisce per affezionarsi ai suoi protagonisti più bizzarri
Quante volte l’hanno dato per morto. Quante volte se l’è cavata. Per certi versi la vita pubblica di un paese finisce per affezionarsi ai suoi protagonisti più bizzarri. E fra questi, indubbiamente, il Senatùr si conferma il più sperimentato. Una risorsa narrativa che a partire dalla metà degli Anni Ottanta non solo ha conquistato la scena e se l’è tenuta, ma soprattutto l’ha trasformata e anzi l’ha stravolta, fino a renderla irriconoscibile. Chi l’avrebbe detto vent’anni orsono. Ma forse il vero mistero, la ragione di questa sorpresa che tanto ha contribuito a renderlo pericoloso, è il Bossi sconosciuto, il Bossi di prima. Politicamente, un figlio di nessuno. Un autodidatta. Un capopopolo, come ne nascono certe volte in Italia di furbi e spietati. Un populista da XXI secolo. Nato e cresciuto tra la pianura brianzola e le colline del Varesotto, una specie di Far West negli anni degli sconvolgimenti sociali, della campagna che si fa industria.