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 2004  maggio 03 Lunedì calendario

Corriere della Sera, mercoledì 10 marzo Bratislava (Slovacchia) - Visto dagli spalti del castello, il quartiere di Bratislava al di là del Danubio è ancora un paesaggio sovietico: torri per appartamenti di sette o otto piani, allineate e coperte come soldati della grande rivoluzione proletaria contro un cielo attraversato dal fumo bianco-sporco delle ciminiere

Corriere della Sera, mercoledì 10 marzo Bratislava (Slovacchia) - Visto dagli spalti del castello, il quartiere di Bratislava al di là del Danubio è ancora un paesaggio sovietico: torri per appartamenti di sette o otto piani, allineate e coperte come soldati della grande rivoluzione proletaria contro un cielo attraversato dal fumo bianco-sporco delle ciminiere. Il quartiere si chiama Petrzhalka e fu costruito negli anni in cui la Slovacchia era soltanto la seconda metà di uno Stato nato a Praga dopo la dissoluzione dell’Impero austroungarico e divenuto comunista nel 1948. Ebbe una indipendenza breve e apparente nel 1939, quando Hitler ne fece uno Stato satellite del Grande Reich, divenne nuovamente ”cecoslovacca” nel 1945, rinacque dopo la fine della Guerra fredda e la separazione consensuale dalla Repubblica Ceca nel 1992. Ma per sei anni, fino al 1998, sembrò condannata a finire nel grande libro della storia centro-europea come un esempio di liberazione abortita. Aveva un cattivo governo postcomunista, guidato da Vladimir Meciar e composto da una nomenklatura che non aveva altro desiderio fuor che quello di spartirsi, con qualche falsa privatizzazione, i beni dell’eredità sovietica. Quando Madeleine Albright, segretario di Stato nell’ultima fase della presidenza Clinton e figlia di un diplomatico cecoslovacco, parlava del Paese di Meciar, diceva con rassegnazione: «è il buco nero dell’Europa». Altri, confrontandola ai suoi vicini (Repubblica Ceca e Ungheria), dicevano più gentilmente: «è il brutto anatroccolo della famiglia». Le cose cambiarono nel 1998 quando il Paese, con uno scatto di orgoglio, si sbarazzò di Meciar e mandò al potere una coalizione di partiti democratici di destra, centro e sinistra, sotto la guida di Mikulas Dzurinda. Il governo rifece in parte la Costituzione tenendo conto dei consigli di Bruxelles e si mise a studiare le ottantamila pagine dell’«acquis comunitaire» vale a dire quell’enorme corpus di regole, norme e ordinanze che la Comunità europea aveva emanato nel corso della sua storia. Partì allora, insieme alle vere privatizzazioni, un’operazione simbolica, ma entusiasmante: il restauro della città vecchia. Sotto il grigiofumo dell’era comunista riapparvero gli stucchi, le cariatidi, le guglie, i putti, gli angeli, il pastello giallo o azzurro delle dimore patrizie delle chiese barocche e delle case borghesi costruite negli anni in cui la città si chiamava Presburgo ed era un affascinante crocevia danubiano fra il mondo di lingua tedesca e quello di lingua ungherese. Riapparve tra gli altri il palazzo del Primate, coronato da uno stemma su cui troneggia, al centro della facciata, un enorme cappello vescovile. Qui nel dicembre del 1805, dopo la vittoria dei francesi a Austerlitz, Talleyrand firmò il trattato con cui Napoleone cambiava ancora una volta la carta d’Europa strappando all’imperatore d’Austria, insieme al Tirolo, quasi tutti i possedimenti della defunta repubblica veneziana. Nel dicembre dell’anno prossimo, quando verrà celebrato il secondo centenario della pace di Presburgo, gli slovacchi saranno cittadini di un altro «impero», l’Unione europea. Vi saranno riusciti soprattutto grazie alle riforme economiche e sociali realizzate dai governi di Dzurinda. Dopo la coalizione consociativa del 1998 e una nuova tornata elettorale, la Slovacchia è stata governata da una formazione di centrodestra in cui il compito delle riforme spetta a un economista di 43 anni, Ivan Miklos, vice Premier e ministro delle Finanze. Miklos ha liberalizzato il mercato del lavoro, tagliato il sostegno pubblico alle tariffe delle aziende di pubblica utilità (elettricità, gas) e innalzato a 62 anni l’età della pensione. Ma la sua maggiore riforma, quella che ha suscitato un coro di applausi e un’ondata di proteste, è l’introduzione della flat tax: una stessa aliquota (19 per cento) per i redditi individuali, i profitti delle aziende e l’Iva. Questo paniere di riforme ha avuto l’effetto di rendere la Slovacchia, in breve tempo, uno dei Paesi più ospitali e promettenti dell’Unione. Se ne sono accorti i sudcoreani della Hyundai. Dopo un lungo negoziato con la Polonia hanno deciso di installare qui la fabbrica europea delle automobili Kia. Ne costruiranno più di duecentomila all’anno, assumeranno circa 2500 operai e partiranno dalle pianure slovacche alla conquista del mercato europeo dove hanno già venduto, nel 2003, 150.000 macchine sportive del tipo Sorento. Con quali lusinghe, promesse e incentivi gli slovacchi sono riusciti a scavalcare i polacchi? Secondo Juraj Stern, economista ed ex presidente della Conferenza dei rettori, il governo di Bratislava non ha concesso nulla più di quanto è autorizzato dalla Commissione di Bruxelles. Secondo Martin Milan Simecka, direttore del quotidiano ”Sme” (un giornale indipendente nato dieci anni fa nei circoli dell’opposizione liberal - democratica contro il regime nazional - populista di Meciar), non tutti gli impegni assunti dal governo di Bratislava potrebbero rivelarsi compatibili con le regole degli arcigni commissari di Bruxelles. Ma la Slovacchia, per il momento, si gode la soddisfazione di essere diventata una sorta di distretto automobilistico dell’Unione. Prima di Hyundai altre due grandi aziende (Volkswagen e Peugeot) si erano installate nel Paese con le loro fabbriche. Non tutto è positivo, naturalmente. La flat tax al 19 per cento e i tagli alla spesa pubblica giovano ai gruppi sociali più intraprendenti e alle fasce più prospere della società, ma colpiscono i ceti a reddito fisso e creano nuova povertà. Può accadere che molti slovacchi, dopo avere pagato una tassa sul reddito inferiore a quella degli anni precedenti, scoprano di avere meno denaro di quanto ne avessero prima. Particolarmente danneggiati dalle misure neoliberiste di Miklos sono gli zingari che rappresentano probabilmente il 6 per cento della popolazione (molti di essi, nei censimenti, si dichiarano slovacchi o ungheresi) e hanno perduto il sostegno del vecchio Welfare State alle famiglie numerose. Vi sono state proteste e jacqueries nell’est del Paese con saccheggi di negozi e parecchi arresti. Il governo ha risposto con qualche misura assistenziale che il ”parlamento” dei Roma (un organo ufficioso della comunità) ha giudicato insufficienti. Ma i malumori e le proteste non tolgono molto al clima euforico e ottimistico con cui la Slovacchia si appresta a fare il suo ingresso nell’Unione. Meciar non ha smesso di rincorrere il potere e sarà candidato alle elezioni presidenziali in aprile. Cercherà di rappresentare la Slovacchia impaurita dalle riforme e preoccupata dalle sfide del mercato unico, ma è, secondo Simecka, un pariah, ormai incapace di raccogliere intorno alla sua persona una percentuale superiore, nella migliore delle ipotesi, al 15 per cento dell’intero Paese. Esiste un euroscetticismo intelligente, ispirato soprattutto dalla linea dei conservatori britannici e dagli editoriali dell’’Economist”. Uno dei suoi maggiori esponenti è Frantisek Sebej, già presidente della commissione parlamentare per l’integrazione europea, ora direttore di un settimanale politico, Domino, che critica «da destra» la politica riformatrice del governo Dzurinda. Sebej non è contrario all’Unione, ma cita lo scetticismo di Milton Friedman sulla sorte dell’euro, sorride del verboso progetto costituzionale della Convenzione, è convinto che la guerra americana contro l’Iraq fosse giustificata e dichiara che la Slovacchia non deve cedere a nessuno il diritto di fare la politica estera che meglio la garantisce dal colosso russo. Sono sentimenti condivisi forse da una parte dell’opinione slovacca, ma che appaiono oggi «stonati». Quando arrivano a Bratislava, le notizie sulla situazione internazionale, sul dissenso euro-americano e sul fallimento della conferenza intergovernativa per l’approvazione del trattato costituzionale dell’Unione, hanno perduto il loro tono minaccioso. Il Paese è felice di essere uscito dal buco nero dell’epoca di Meciar e di avere superato brillantemente il suo esame europeo. Nel mio albergo ho visto una folla elegante di trentenni e quarantenni che si era data appuntamento per un ballo e un banchetto: uomini in smoking, donne «in lungo» con grandi scollature e brillanti parure. Quando sono nati, il loro Paese viveva alla periferia di Mosca, oggi è nuovamente alla periferia di Vienna. Per ora può bastare. Al resto penseranno poi. Sergio Romano