Varie, 3 maggio 2004
Tags : Antoni Tàpies
TPIES Antoni Barcellona (Spagna) 13 dicembre 1923. Artista • «Nel panorama del secondo dopoguerra spagnolo il giovane Antoni Tàpies assunse presto un posto di rilievo: ma dire spagnolo è quasi una provocazione per una cultura come quella catalana che tiene - come poche altre nel vecchio continente - a una sua spiccata e gelosa identità
TPIES Antoni Barcellona (Spagna) 13 dicembre 1923. Artista • «Nel panorama del secondo dopoguerra spagnolo il giovane Antoni Tàpies assunse presto un posto di rilievo: ma dire spagnolo è quasi una provocazione per una cultura come quella catalana che tiene - come poche altre nel vecchio continente - a una sua spiccata e gelosa identità. Tàpies infatti muove i suoi primi passi sulla scia di Joan Miró, ma è evidente che i suoi legami sono assai forti con questa linea della modernità che ha tra i suoi padri personaggi della statura di Picasso e Dalí. Questo suo confessato legame è ben evidente nella serie giovanile degli autoritratti in cui si ritrovano oltre che una perizia tecnica non comune anche i fili che legano ciascun disegno a matita ai suoi amati punti di riferimento: Tàpies, che è un memorialista eccellente e uomo di non comune cultura, dice che quelle prove erano "divagazioni, mimetismi carenti" che lo lasciano "del tutto insoddisfatto". Ma già da questi ritratti salta all´occhio la sua attenzione a Picasso e Breton: a causa di una tubercolosi che da giovane lo tenne infermo e fermo attinse all´esistenzialismo e lesse voracemente Sarte, Bataille, Merlau-Ponty, Heidegger. Nel 1948 con Cuixart, Tharrats e Pons fonda il gruppo d´avanguardia Dau al Set che è il titolo anche della loro rivistina. Nello studio di carrer Deputaciò dipinge quei Personaggio con gatto e Personaggio con la testa girata (1948) che è il segno di una svolta sperimentale che l´impone all´attenzione generale. E´ una sorta di epifania di una via molto personale nel quale mescola una lettura della psicanalisi e del surrealismo: la sua amicizia ininterrotta con Mirò principia da quegli anni ed è ben evidente in molte sue opere d´esordio. Contemporaneamente a questo universo onirico costruisce tele con fili che disegnano forme astratte e preludono alla sua svolta informale. Siamo agli anni Cinquanta e con una capacità prensile inesauribile si capisce come la sua pittura materica dialoghi senza complessi con Dubuffet e Fautrier, con Fontana e Burri, con lo spagnolo Antonio Saura: con un certo strabismo uno sguardo è volto agli olandesi del gruppo Cobra come Joern e Appel. Tutto accade in un breve giro d´anni che ha una sua consacrazione nella grande monografica del 1956 alla Galleria Stadler di Parigi.
[...] Nelle grandi tele degli anni Sessanta il senso di una nuova materialità si esprime in un gusto per il colore e la stratificazione terrosa; sabbie e legni combusti sono attraversati da tracce, segni, graffiti che sono parte di quell´arte gestuale che viene dalla costa atlantica: dunque una pittura cosmopolita, la sua, che tuttavia in talune opere (cito solo Corpo di materia e tracce di arancio, 1968) rivela il calore e un senso della mediterraneità che è propriamente catalana: essa ci rimanda - con evidenza a me pare - a quegli affreschi strappati dalle chiese romaniche catalane che sono memoria visibile nel Museo d´arte di Catalogna al Montjuic. Nel decennio successivo il suo approdo alla Pop Art, anche se inserti sono già presenti in opere precedenti: come è nella poetica pop, Tàpies si serve di oggetti comuni (un materasso squarciato, una scrivania con paglia, pantaloni, panni) immessi a far parte di universo che non guarda alla società dei consumi di massa quanto piuttosto alla memoria collettiva, alla civiltà della sua terra. Strepitosa nel Museo d´Arte contemporanea di Barcellona - opera di Richard Meier - il grande fuori scala con spalliera di letto e panni che si scorge dalla rampa che attraversa il museo. Niente hamburger o Coca-Cola? dunque, ma piuttosto il sogno di un mondo che si sta sgretolando e che Tàpies sembra voler afferrare con gli artigli della sua memoria onirica, come spiega felicemente Manuel J. Borja-Viller che cura la mostra e dirige felicemente il museo. Nell´ultimo decennio c´è come un ritorno alla figurazione, all´inesauribile vocazione materica e tattile delle sue composizioni. E´ evidente il necessario passaggio alla scultura in terracotta prima, in bronzo poi [...]» (Cesare De Seta, ”la Repubblica” 3/5/2004). «L’arte sembra non aver luogo di dimora. Quella di Antoni Tápies sembra spingersi ai confini di ogni realtà abitabile, museo pubblico o parete privata. [...] Il sogno dell’arte in Tápies corre lungo linee di volo che non conservano distanze dal suolo, anzi percorrono sentieri che assecondano l’altezza opaca dei piedi. Il muro, la sua composta consistenza, le tracce di alcune memorie di oggetti, i graffiti che accennano colloqui solitari. La superficie del quadro è una parete, un orizzonte che corre fermo e irremovibile a sbarrare lo sguardo. Qui la fantasia dell’arte avviene mediante segni incisivi, che hanno la forza della penetrazione ritagliata dall’istante. Ora tutto diventa precario e nello stesso tempo definitivo, tracciato dentro la sostanza cementata di una superficie che accoglie e trattiene ogni segno in maniera duratura. Il sogno dell’arte ha lunga memoria e non si perde dietro le volubili sequenze di semplici associazioni libere. Le immagini restano impigliate dentro lo spessore di una materia densa e certamente non nobile. Eppure corrono tutte a ripararsi sulla superficie del muro, da dove poi non è possibile fuggire lontano. Il tempo e lo spazio trovano una sistemazione irreversibile, una collocazione incrociata e resa a futura memoria dalla capacità della superficie di saper far muro contro ogni instabilità. Lasciare una traccia significa incidere, entrare dentro la materia con polso fermo oppure cogliere velocemente e d’incontro la parete per segnare in corsa la cifra del proprio passaggio. Caso e decisione, geometria e forme aperte, si pongono in una posizione ferma e raggelata, immagini tutte di una presenza che non trova altre testimonianze al di fuori di queste memorie indirette, come in Terre sur marron foncé (’56). ”Non riesco a capire l’atto creativo senza farlo dipendere interamente da un atteggiamento personale” (Tápies). Dunque la parete, il muro, il supporto, è di tutti ma soltanto il gesto individuato e incisivo dell’artista riesce a intaccare la dura e opaca resistenza della sua superficie. Forse il muro è di tutti perché tutti lo possono guardare, patrimonio dell’occhio sociale. Ma il sogno dell’arte possiede la forza di farsi vedere, di apparire anche a coloro che artisti non sono, ma soltanto come rappresentazione. Tápies porta il suo sogno d’arte a contatto dei piedi e del corpo, abbassa il volo delle immagini a altezza dello sguardo collettivo, su un supporto che, per definizione, è leggibile da tutti: il muro. Qui avviene che tempo e spazio concretizzino i loro intrecci e fissino i loro incontri nelle forme convenienti e consone alla natura del supporto. I segni infatti sono quasi sempre graffiti, piccoli squarci e ferite che si rapprendono dentro la sostanza della parete. Il libro collettivo è appunto il muro che parla un linguaggio ancora oscuro e singolare. Esso è attraversato da una scrittura duratura eppure precaria, fatta di segni muti e di calchi di oggetti. Come se fossero caduti in una sostanza fresca che li abbia poi cementati dentro di sé, senza più farli fuggire. Il sogno basso di Tápies avviene interamente calato nel quotidiano e non cita immagini alate o eccentriche, si accontenta di citare la prosa innumerevole di piccoli oggetti, di piccoli incidenti di forme che incontrano il muro, di segni che si rapprendono nella materia destando una memoria duratura, altrimenti impossibile: vedi il Gran blanc llanna blava (’72). La memoria lunga del muro non è una qualità insita della materia ma effetto trasfigurante del sogno dell’arte, che trova nella fantasia individuale dell´artista la forza di portare a lunga vita ciò che altrimenti deperirebbe. Tápies è il creador di un lungo sogno. Lungo quanto i muri che circondano tutta la Spagna. La creazione avviene attraverso la sorpresa di accostamenti e aggregazioni di forme e oggetti che vivono normalmente molto distanti tra loro. Il sogno dell’arte è quello di creare nuove famiglie di segni, nuovi nuclei di senso, attraverso cui è possibile sperare sempre altri incontri e una perenne conflittualità di ordini. Incessantemente la mano torna sul muro, per tracciare il superamento di vecchie disposizioni di segni. Ma questo è possibile perché la materia del muro possiede dentro di sé già la forza di reggere il mutamento, una continua manipolazione della sua superficie, superficie dura e nello stesso tempo dolce e arrendevole. Stampi, calchi, concavo e convesso, ritmano la superficie secondo accordi e dissonanze spaziali che non turbano la capacità di reggere nuovi interventi. Il muro creado è l’opera che risponde al proprio sogno, che cova dentro di sé le pulsioni di una mano libera da qualsiasi schiavitù di un alfabeto definitivo. Qui non esiste una scrittura che si ripete, né una scrittura che si arroga il diritto della ripetizione. L’onnipotenza del gesto irripetibile e individuale accompagna e sostiene l’energia del linguaggio, come in Triptic blan (’83) oppure Diptic de vernis (’84). Perciò la mano non ha nausee, perché non esiste ripetizione, ciò che procura sempre la coscienza dell´impossibilità e dello scacco. La fantasia dell’arte è proprio di portare il quotidiano e la sua convenzione sul piano verticale e scivoloso della parete, dove tutto si tramuta in occasione di segno. Talvolta il muro è colorato, attraversato da colature cromatiche che passano sulla superficie come a sommergere la materia, per portarla nello stato squillante di un´altra condizione, quella della sua trasfigurazione. La trasfigurazione è il portato dell’intreccio tra segno e materia, della necessità del segno di assumere la carne della materia e di questa di uscire dall´inerzia costitutiva della propria essenza. La fantasia dell’arte di Tápies è quello di attraversare la condizione bassa del linguaggio quotidiano, nella consapevolezza che soltanto l´artista può arrivare a scavare dentro la sua sostanza opaca e portare sulla superficie del muro una nuova energia, materiale e morale. Tápies tende a socializzare la fantasia dell’arte, disponendolo metaforicamente e metonimicamente nella possibilità di un’apparizione sensibile a ogni sguardo, pronta a tramutarsi in comunicazione, seppure attraverso un alfabeto visivo e mentale che conosce molto bene i labirinti entro cui il linguaggio va a cacciarsi. La fantasia dell’arte è quello di allargare il contagio di una sua attitudine, che consiste nel portare il quotidiano in una condizione di impossibilità, dove il linguaggio esce dagli argini del significato per slittare verso altre derive» (Achille Bonito Oliva, ”la Repubblica” 25/4/2005).