Varie, 27 aprile 2004
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Berger John
• Londra (Gran Bretagna) 5 novembre 1926. Pittore. Scrittore • «Quando agli inizi degli Anni Settanta John Berger si trasferisce a Quincy, un piccolo villaggio delle Alpi francesi abitato da ottanta anime, ha già pubblicato una serie di libri che lo hanno reso noto nella cultura inglese. Si tratta di opere saggistiche dedicate a Picasso (Splendori e miserie di Pablo Picasso) e al tema della visione (Questione di sguardi), ma anche di romanzi e racconti, come Ritratto di pittore o G., alcuni dei quali sono stati tradotti in altre lingue. Berger, che negli Anni Cinquanta ha esposto come pittore in diverse gallerie, è uno scrittore inquieto; si misura con la narrazione e con il saggio, scrive poesie, collabora con articoli a quotidiani, e a riviste di motociclismo, sua grande passione. La scelta di vivere a Quincy non è casuale. Berger, che è nato a Londra nel 1926, e dunque all’epoca ha superato i quarant’anni, sceglie come sua residenza una piccola comunità di contadini e allevatori, un piccolo villaggio ancorato al passato, proprio nel momento in cui il mondo occidentale sembra orientarsi verso il progresso e la modernizzazione. Non si tratta di una scelta anacoretica, di una rinuncia, ma di una presa di posizione che diventerà sempre più evidente nei decenni successivi, quando Berger, che non è solo uno scrittore stanziale ma anche un nomade e un viaggiatore, farà di Quincy il suo punto d’osservazione sul mondo. Per capire cosa significa questa scelta bisogna parlare delle caratteristiche della sua stessa opera, cercare ciò che lega forme espressive all’apparenza così diverse. La prima cosa che salta agli occhi nella prosa di Berger sono le ”forme d’attenzione”. Sia che racconti storie di contadini o di montanari - come nell’ultimo bellissimo libro narrativo tradotto, Una volta in Europa (Bollati Boringhieri, che riceverà a Trento martedì prossimo il Premio Itas del Libro di Montagna) -, sia che si occupi dell’arte di Alberto Giacometti, Berger focalizza in modo assoluto il proprio sguardo sull’oggetto di cui parla; lo fa con delicatezza ma anche intensità tali che l’oggetto del suo discorso diventa sempre un soggetto. Quando scrive Berger è completamente concentrato su ciò di cui si occupa secondo strategie di ascolto maieutico: i suoi scritti presuppongono sempre un interlocutore preciso, cui si rivolge in modo diretto, in questo modo, ogni testo si presenta come un discorso rivolto a qualcuno che egli ascolta e con cui interloquisce sia nello spazio sia nel tempo. Quando s’inizia a leggere un racconto, un saggio o un articolo di Berger, non si sa mai a priori quello che egli dirà: il discorso nasce da una propria necessità intrinseca, mai da tesi predeterminate. Il suo metodo consiste nel reinventare di continuo la propria ”attenzione”. Lo stile coincide con la sua prosa: suadente, morbida, delicata, e tuttavia forte e tesa; egli va sempre al cuore dei problemi. Maria Nadotti, sua traduttrice e curatrice italiana, ha scritto nella presentazione di Modi di vedere (Bollati Boringhieri) che il verbo che definisce Berger è ”connettere”: collega tra loro cose e persone, temi e oggetti, se stesso e l’altro. Berger è particolarmente interessato ai sentimenti, e al rapporto dei sentimenti con quella che potremmo definire l’’intimità”; in questo è un erede della grande tradizione romantica inglese, degli scrittori e dei poeti filosofi come Coleridge o Wordsworth. Il discorso sui sentimenti e sull’intimità, ha scritto la Nadotti, assume in Berger una tonalità pubblica, comunitaria, ovvero politica. Questa è una caratteristica che fa sì che l’apparente eclettismo dei suoi libri abbia un saldo baricentro. Berger è uno scrittore politico, come dimostra anche la recente raccolta Selected Essays, curata dallo scrittore Geoff Dyer presso Bloomsbury. La sua vocazione politica, che coincide con la scelta di vivere a Quincy, con la presa di posizione a favore del mondo contadino in via di scomparsa, con il dialogo con il Comandante Marcos, con la sua recente presenza in Palestina e con le prese di posizione a favore delle «sacche di resistenza», non è un fatto ideologico, bensì poetico - Berger non sa neppure cosa sia l’ideologia. In questo modo egli incarna una figura di scrittore che sembrava scomparsa in Europa negli ultimi vent’anni, colui che esprime la propria politicità non attraverso l’adesione attiva a qualche partito o schieramento, ma mediante una militanza nel campo della letteratura. Berger fa della letteratura il principale strumento per indagare e difendere i sentimenti più intimi dell’uomo. L’altro aspetto fondamentale del suo lavoro è di essere un Storyteller, ovvero un narratore di storie nell’epoca in cui questo mestiere sembrerebbe definitivamente tramontato a vantaggio del romanziere. Il narratore, secondo la celebre definizione di Walter Benjamin, è una ”persona di consiglio” per chi l’ascolta; il suo orientamento è pratico (’consiglio, cucito nella stoffa della vita, è saggezza”); al contrario, scrivere un romanzo ”significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana”. La vita vissuta, raccontata nei brevi affascinanti racconti-istantanee di Fotocopie [...] è la fonte principale della narrazione di Berger. Egli è insieme un narratore e un ascoltatore; meglio: è un narratore perché sa ascoltare. Ciò che colpisce in Berger, che ha concentrato la propria attenzione sui temi visivi, è l’insistenza sul tema del tempo. In alcuni saggi dedicati alla pittura e alla fotografia raccolti in quello che è uno dei suoi studi più belli, Sul guardare (Bruno Mondadori), Berger esamina il tempo in rapporto alla prospettiva pittorica. Partendo da un semisconosciuto pittore turco dell’Ottocento, Sker Ahmet Pasa, vissuto a Parigi e allievo ideale di Courbet, la cui opera ha potuto osservare in un piccolo museo, Berger riflette sull’introduzione della prospettiva nella cultura orientale. Nel quadro che ci descrive è raffigurato un sentiero nel bosco,in mezzo agli alberi, un sentiero che ha un preciso orientamento su cui s’incammina un taglialegna. Quel sentiero, osserva, è la perfetta rappresentazione del tempo unilineare, quello su cui si fonda non solo la pittura europea, almeno fino alle avanguardie storiche, ma anche il romanzo borghese nato nell’Ottocento. Il romanzo, scrive Berger, è l’effetto della perdita dell’orizzonte contadino, è l’espressione di uno sradicamento. Se si confrontano le forme narrative precedenti al romanzo, i racconti nati nelle lingue europee nel corso del lungo medioevo, si scopre che la loro dimensione spaziale è bidimensionale e non tridimensionale. E tuttavia la loro veridicità non è meno reale o efficace. In un recente film-documentario girato nella Pianura padana dallo scrittore Gianni Celati, Case sparse, dedicato alle case abbandonate dai contadini, Berger è seduto in riva al Po. Si appoggia a un tavolo e parla con alcuni fogli davanti. Riflette ad alta voce sul rifiuto dell’uomo contemporaneo del tempo che passa, delle rovine, di quella rovina vissuta che diventa, con il trascorrere degli anni, il volto dell’uomo. Più avanti nel film Berger è in piedi dentro un edificio semicrollato. Indica fuori dalla finestra una piantagione di pioppi. Gli alberi sono perfettamente allineati lungo linee parallele, così da creare naturali prospettive in tante direzioni. Non una sola, bensì molte prospettive. Berger parla della Storia, dell’inganno dell’ideologia della Storia: ”A scuola ci insegnano che c’è un unico sentiero, il grande sentiero della Storia, la grande interpretazione storica del passato che sarebbe la via principale. Balle! In realtà, quando ci si trova davvero di fronte al passato, ci sono tanti sentieri da prendere, forse tanti quanti sono le persone che guardano e scelgono le loro strade”. In questa frase detta davanti alla macchina da presa c’è l’intera idea del suo narrare, e del suo vivere. John Berger è un uomo, uno scrittore, a cui piace avviarsi non verso un’unica direzione ma verso tante. Gli piace l’idea dello scrivere come ascolto, ma anche come vagabondaggio: l’andare nomade verso non un solo, ma molti destini, destini non solo individuali, ma anche collettivi» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 27/4/2004).