L’Indipendente 18/04/2004, 18 aprile 2004
L’agro pontino All’inizio, la parola d’ordine era la bonifica integrale, lanciata sulla scorta di quelle iniziate già a fine ’800 ma con quel tanto di pomposità in più tipica del regime
L’agro pontino All’inizio, la parola d’ordine era la bonifica integrale, lanciata sulla scorta di quelle iniziate già a fine ’800 ma con quel tanto di pomposità in più tipica del regime. La campagna fu affidata al ministero dell’Agricoltura di Giacomo Acerbo e del suo sottosegretario Arrigo Serpieri, che aveva la delega proprio alle bonifiche: due tecnici liberali e nittiani, cooptati dal nascente regime, che sognavano un’Italia moderna e ipercapitalista. Loro s’affidarono - dopo qualche resistenza - ai Consorzi dei proprietari: in buona sostanza, associazioni di latifondisti. Anche la bonifica dell’Agro Pontino, un’opera più volte tentata e fallita nel corso dei secoli, inizialmente era nelle loro mani. Quando nel 1926 i Consorzi di bonifica si lanciano nell’impresa, la pianura che iniziava a sud dei Castelli Romani era un’acquitrino malarico e improduttivo da un millennio. Non esisteva nemmeno una mappa esauriente della zona: c’erano punti in cui probabilmente non s’era mai visto un essere umano. La gente, a quei tempi, viveva quasi tutta sulle montagne circostanti, dove s’era rifugiata per scappare alla zanzara anofele (l’insetto responsabile della diffusione della malaria), e guardava con scetticismo alla nuova impresa. Pensavano: «Tanto prima o poi torna l’acqua» (pare che qualcuno, sui Lepini, lo pensi ancora). In quel momento non c’è un piano urbanistico: ai Consorzi interessa solo prosciugare, poi i proprietari gestiranno i terreni come meglio credono. Saranno comunque i villaggi operai, costruiti per rendere più spedito il lavoro dei braccianti che devono scavare i canali, a costituire la base dei borghi di cui oggi è disseminato ”l’agro redento” (giusta la definizione d’epoca). Si va avanti così dal 1926 al ’31, quando il Duce decide di dare la sveglia ai lavori conferendo carta bianca all’Opera nazionale combattenti (Onc) e al suo nuovo capo, il conte Valentino Orsolini Cencelli: la quantità di ore lavorate dagli operai si impenna, le terre (circa 70.000 ettari) vengono tolte ai latifondisti e assegnate ai contadini che cominciano ad arrivare soprattutto dal Veneto, ma anche dal ferrarese e dal Friuli. Inizialmente staranno a mezzadria. I coloni partivano alla sera dalle loro regioni, riuniti per area di provenienza, tutti sullo stesso treno con armi, bagagli, masserizie e animali. La mattina dopo - a Cisterna, Littoria Scalo o Terracina - trovavano a aspettarli i banconi con caffelatte, polenta e grappa organizzati dal Fascio femminile. Poi venivano caricati sui camion e scaricati nei poderi, dove per ogni famiglia (almeno una quindicina di persone) c’era la terra e un casale completo di tutto: stalla, pozzo, fienili, forno, passi-comodi e locali di abitazione. Nell’Agro Pontino, tra il ’32 e il ’34, la grandezza media degli appezzamenti era di 15 ettari (da un minimo di 9/10 per i terreni di fertilità medio-buona ai 20 di quelli argillosi o sabbiosi) e i casali erano posti a coppia sulla strada, uno ogni 250 metri circa. Insomma sei famiglie, un centinaio di persone, ogni 500 metri, con buona pace di chi vede nella struttura dell’appoderamento pontino il tentativo di isolare i contadini. E fin da subito si creò una comunità: i coloni si scambiavano giornate di lavoro e favori vari, poi, a sera, si riunivano per il tradizionale filò, dove si chiacchiera e si cuce. Per non parlare dei balli, sull’aia e più tardi nelle sale (Borgo Podgora, per l’abbondanza di luci e locali, lo chiamavano ”la piccola Parigi”). A un certo punto, però, al conte Cencelli i borghi non bastavano più e gli venne in mente Littoria. Il 30 giugno 1932 invitò Mussolini alla posa della prima pietra, ma il Duce non era contento. Ordinò di non dare risalto alla notizia e mandò un telegramma parecchio infastidito a Cencelli: «Tutta quella rettorica a proposito di Littoria, semplice comune e niente affatto città, Est in assoluto contrasto colla politica antiurbanistica del Regime» etc. Di Littoria, però, lo venne a sapere la stampa estera e fu il putiferio: in Italia costruivano una città! E tutti vollero guardare, perfino i russi. Il progetto era dell’architetto Frezzotti (sui manuali è considerato un minore), l’idea di Cencelli, ma il merito se lo prese tutto Mussolini che sei mesi dopo, il 18 dicembre 1932, andò di persona all’inaugurazione. A quel punto fondare città divenne cosa buona e giusta e seguirono Sabaudia e Pontinia, e poi, una volta attaccato anche l’agro romano, Aprilia e Pomezia (la prima del ’36, la seconda del ’38, quando il capo dell’Onc era già Araldo di Crollalanza). Anche la pianta delle città era cambiata: nelle prime ci sono tre piazze (centro politico, religioso e economico), nelle ultime una sola. Secondo l’onorevole Pino Romualdi, fascista a Salò e fondatore del Msi, fu proprio il Duce a volere Aprilia con una sola piazza: «La voglio con una piazza sola: adesso m’avete stufato con tutte ste piazze» (ordine eseguito dal gruppo di progettisti guidato dall’architetto Concezio Petrucci, che di città ne fonderà altre tre).